di Claudio Cajati
Giulia, ora che sono morto
anch’io, ti posso spiegare tutto per bene. E giustificarmi per quello che ho
fatto dopo che mi hai lasciato. Che poi lo devo dire: una grossa
responsabilità, anzi la maggiore, per tutto quello che mi è successo, ce l’hai
proprio tu. Ma come?, voi donne siete più longeve di noi uomini, e tu mi vai a
morire a soli sessant’anni! Mi hai lasciato solo, io che non so cucinare, non
so sbrigarmela con i lavori di casa, e pure a fare la spesa me la cavo male.
L’unica figlia femmina che abbiamo ormai era sposata e
doveva badare alla sua nuova famiglia, alla sua casa: non mi avrebbe potuto
aiutare. Insomma, ho dovuto trovarmi una badante.
Tutti i nostri figli si sono
subito preoccupati. Ma per loro, non per me. Si sono preoccupati che quella mi
si appiccicasse addosso, che fosse una capace di abbindolarmi, di farsi
lasciare un’eredità o addirittura di farsi sposare. Prima di tutto hanno
pensato che quindi non doveva essere giovane, non doveva essere carina.
Naturalmente me l’hanno voluta scegliere loro. E me l’hanno scelta sui
cinquanta, grassottella, bassotta, piuttosto bruttina, polacca cattolicissima.
Marzena si chiamava, ma si faceva
chiamare, con una punta vezzosa, Maggie. Era molto efficiente, scrupolosa, attenta.
Non rompeva piatti o bicchieri, puliva a fondo, sapeva sempre quello che doveva
fare, non c’era bisogno che glielo suggerissi o ricordassi io.
Con me era rispettosa ma
affettuosa. Aveva slanci di solidarietà e dolcezza nei miei confronti che, scusa
se te lo dico, tu non avevi mai, o quasi mai. Quando mi doveva aiutare ad
alzarmi o a calarmi in poltrona, o quando doveva aiutarmi a lavarmi la schiena
nella vasca da bagno, lo faceva senza ambigue malizie. E confesso che la cosa, che
pure era segno di correttezza, mi dispiaceva un poco: le sue mani tonde morbide
tiepide che mi scorrevano sulla pelle mi davano l’idea di un brivido diverso
che avrei potuto provare se…
Il tempo è passato veloce, in una
consuetudine monotona. Ma poi le cose sono cambiate fra noi. Ormai era quasi un
anno che Maggie viveva con me. Adesso c’era grande familiarità e confidenza fra
noi. Ma una familiarità che ha smesso all’improvviso di essere fraterna: in lei
è emersa, prepotente, la femmina. E che femmina!
È stata una deliziosa sorpresa, la
prima volta. Maggie mi ha preparato un caffè, è venuta verso di me che ero in
poltrona e all’improvviso è inciampata – o ha fatto finta di inciampare – tanto
da rovesciarmi il contenuto della tazzina sui pantaloni. Anzi proprio sulla
patta. Allora si è precipitata a prendere uno strofinaccio, l’ha bagnato abbondantemente
ed è corsa per togliermi la macchia: premeva con lo strofinaccio bagnato sulla
patta, ma soprattutto strofinava sul mio uccello, impazzito di piacere. In poco
tempo sono arrivato bagnandomi tutto. Allora lei con la massima disinvoltura mi
ha slacciato i pantaloni, me li ha tirati via, e mi ha pulito l’uccello
leccandolo a lungo con la stessa meticolosa cura con cui usava fare le pulizie.
(Ho pensato: Ecco, la sua fissazione per
la pulizia, però…)
Un giorno, poi, che stava lavando
il pavimento vicino al divano su cui leggevo il giornale, lei è scivolata – o
ha fatto finta di scivolare – e in un istante mi è caduta in braccia. Il suo
tondo e massiccio fondoschiena proprio sul mio uccello, che ha cominciato a
gonfiarsi. Lei allora ha fatto come per tentare di rialzarsi, mentre mi
guardava fra mortificata e allusiva. Ma non riusciva a rialzarsi – o faceva finta
di non riuscirci – e con movimenti scomposti non faceva altro che strofinare il
suo culo sul mio uccello ormai tutto in erezione. Ha continuato così, a lungo,
a lungo. E io non ho potuto fare a meno, anche questa volta, di arrivare. Lei
ha ripetuto il rito del lavaggio, questa volta ficcandoselo tutto quanto in
bocca, fino in fondo alla bocca.
Da allora abbiamo cominciato a fare
sesso in tutte le maniere. Come due giovani amanti impazziti di desiderio.
Soprattutto lei, anche quando io ero stanco, voleva fare sempre comunque
l’amore. E lo sapeva fare benissimo, come una consumata professionista (tu ci
mettevi tutta la tua buona volontà, ma non c’è proprio paragone con quello che
mi faceva provare Maggie). Eppure io, nonostante i miei sessantacinque anni, mi
dicevo che era anche merito mio: lei faceva così perché ero ancora un uomo
virile e desiderabile. Mi piaceva pensare che lei volesse fare tanto sesso con me
perché le piacevo, anzi le piacevo assai.
Un giorno che a letto mi stava
titillando teneramente i coglioni con la sua sapiente lingua, mi ha guardato
fisso negli occhi e graziosamente, timida eppure risoluta, ha chiesto con il
suo italiano approssimativo: “Vuoi tu me sposare?”. Io ho pensato a te, ma
soprattutto ai nostri figli che si erano tanto raccomandati di non fare una
sciocchezza del genere. Dovevo educatamente dire no. Ho detto, d’un fiato, sì.
Ci siamo sposati in municipio in
gran segreto, assolutamente di nascosto dai nostri figli. Non sia mai
l’avessero saputo – loro ignoravano pure che io e Maggie facevamo sesso – sarebbe stata una tragedia.
Dopo la cerimonia Maggie era
raggiante. Mi ha fatto l’occhiolino e mi ha assicurato: “Adesso te farò essere ancora
più felice”. E subito i suoi assalti erotici si sono fatti perfino più
frequenti ed eccitanti. Io insistevo a sentirmene lusingato, mi piaceva pensare
che ero il maschio gagliardo benché maturo che lei voleva.
Ci ho messo un sacco di tempo a
capire la verità: lei voleva semplicemente farmi crepare. Consegnarmi alla
felicità definitiva. E, come ora puoi costatare, c’è riuscita. Noi due siamo
qui, di nuovo insieme, ma fra i morti. Lei intanto si gode la sua cospicua quota
di eredità. E invano i nostri figli stramaledicono lei e me.