Francesco Escalona:
L’insalata di pomodori.
Mi domando se, quando si stilano le classifiche sulla qualità
della vita nelle città e nei territori, si tiene mai in conto il tepore del
sole, la presenza del mare o … il sapore delle pesche bianche o dei pomodori
mangiati “all’insalata”, appena colti dalla terra lì accanto.
Qualche anno fa
ad Ischia mi capitò di cenare nella masseria di un amico. Fu tutto improvvisato
e Claudio, scusandosi, portò a tavola una coppa di pomodori all’insalata
dicendo imbarazzato … :
“ Scusate, non avevo altro … “
La serata era calda al
punto giusto, la compagnia interessante, il vino e i discorsi ondeggiavano come
un’amaca in un pomeriggio d’estate dopo il mare …
Tra una battuta e l’altra,
distrattamente, assaporai uno spicchio di pomodoro …
Mi prese una sorta
di ebbrezza dei sensi … un profumo soave di basilico, anch’esso appena colto,
mi annunciò l’apoteosi della polpa turgida ma succosa che spremevo appena tra i
miei denti, e sulla quale coglievo ancora con le mie papille sorprese, i
granuli del sale che, ancora non sciolti alla perfezione, mi pizzicavano
sottilmente la punta della lingua … e poi, gloriosamente, giunse il retrogusto
dell’olio di oliva fresco in viaggio dalle meridiane terre di Puglia, di cui,
grazie alla sapiente spremitura e al trattamento rispettoso, si avvertiva
ancora tutto l’ardore e, soprattutto, la matrice millenaria da cui quel succo
era stato estratto …
“Maro'!” esclamai.
Chiusi gli occhi. Stavo
riscoprendo, novello Colombo, la nostra America,
l’insalata di
pomodori.
Morale. Qualità della vita: nuovi indicatori di qualità da
suggerire sommessamente agli egregi valutatori internazionali, per determinare
meglio, il reale punteggio finale della qualità della vita presente nelle città
e nei territori europei. Numero giornate di sole splendente con brezza : punti
… ;
insalata di pomodori con ingredienti appena colti: punti …
;
mare e paesaggio mediterraneo: punti …
Questo vuole dire anche che
dobbiamo difendere “con le armi” il nostro suolo e la nostra terra.
L'insalata
di pomodori
Io a Novara non ci vivrei neanche morto.
Giacomo Ricci
Sono d'accordo con te. Mio figlio è a Berlino, la tanto
decantata Berlino e la trova orribile. Mi ha spedito un paio di foto di
condominii modernissimi, strade larghe deserte. Lui dice Berlino, città senza
storia. Allora, quando giro per il Centro Antico di Napoli io sono il più felice
degli uomini. Quei vicoli stretti e bui, che farebbero spavento a una persona
"normale" sono la mia gioia. I pomodori di cui tu parli, l'aria che
viviamo ancora, il mare, tutto concorre a fare di Napoli la città più bella del
mondo.
Novara, a confronto, è poca cosa, concordo. Il problema è che dobbiamo farlo capire che
la nostra idea della vita è diversa, differente, fatta di storia, di terra,
pomodori e tutto il resto.
Francesco Escalona
Spero di non annoiarti. Ma il nostro dialogo a distanza mi
stimola molto. Continua quindi con uno scritto di circa un anno fa. Il tema che
hai colto è di quelli che mi appassionano. Il nostro rapporto con Napoli. Io
ora dico: con la baia di Napoli, che poi è l'entità geografica ed etnica che
riconosco come mia patria. La baia di Napoli... Ma come si può pensare di andar
via? Per intellettuali passionali come noi, e della nostra età, permettimi di
accomunarti alla categoria, l'esilio dal "golfo" equivarrebbe allo
sradicamento totale e quindi alla perdita della linfa vitale: lingua, luce,
suoni, profumi, storie... Impossibile andar via. Per me, penso per noi. Tra il
prendere o il lasciare, resta, ahimè, una sola opzione. Una sola dolce, amara,
opzione...
Napoli: cum finis al centro
del mondo
“Napoli è il centro del
mondo”. Un modo di dire, un luogo comune ripetuto nel tempo dai suoi abitanti,
con orgoglio ma anche con un pizzico di altezzosità.
E così anche quando
arrivano i tempi duri, la decadenza finisce per attestare per assurdo il suo
contrario, ovvero, l'imponenza della sua storia millenaria e la grandezza dei
periodi precedenti in cui Napoli era
centro del mediterraneo, conquista ambita,
punto di riferimento artistico - culturale, meta irrinunciabile, tappa finale
del Grand Tour …
da cui, poi, deriva una decadenza.
Non si decade da ciò che
non si è stati.
Ma forse quel luogo comune era solo uno stupido retaggio
culturale di chi era nato e cresciuto orgogliosamente nella antica capitale del
Regno delle due Sicilie. Nella città illuminista più grande d’Europa.
Oggi, Napoli
è tornata ancora una volta ad essere terra di confine.
Cum finis.
Lo era già stata
Cuma, la città morta. Cumae finis, città madre sorta al confine del mondo
conosciuto, che poi fondò Neapolis.
Lo era stata Neapolis per Cuma:
null'altro che una terra di confine.
E Cumae e Neapolis, il Vesuvio, Pithecusa
e i Campi Flegrei, erano il limite dell’arcaico ingresso dell’Ade: una delle
porte all’oscuro, misterioso, fumigante Regno degli Inferi. La sede
dell’Oracolo dei Morti, annunciata ai naviganti, celebrata e custodita dalle
presenze mortifere
delle Sirene, di Cerbero, di Calipso; di Artemide trimorfos
e, un po’ più a nord, di Circe, la Maga.
Era rocca di confine Cumae,
stretta tra i greci d'Occidente e i barbari Etruschi,
linea di demarcazione,
porta del Tartaro.
Linea di Cum finis tra la luce e buio.
Tra l’inverno di Ade
e la primavera splendente di Demetra. Soglia chiaroscura varcata da Persefone
ad ogni equinozio.
Confine, tra il buio caravaggesco e le lame di luce di
pioggia d’oro, che generarono Perseo.
Fendenti laceranti di luce la tagliano
ancora, la stanca Neapolis, ovunque,
nei vicoli dei quartieri spagnoli,
nei
chiostri freschi del centro antico, negli antri tufacei e polverosi dei Vergini
e di Posillipo, ricordandoci sempre, anche quando siamo al buio, nel buio più
fitto,
che oltre quel confine,
Cum finis,
c’è l’azzurro.
C’è l’azzurro del
mare e lo splendore della bella giornata di sole della baia di Napoli.
"Oggi Napoli, è
tornata giù negli inferi.
E' tornata ancora una volta ad essere terra di confine."
qualcuno scrive.
Terra disperata, terra di limite in tante cose …
Sì, avete ragione, concordo: certo, vediamo tutti i giorni una città governata (o non governata) da
poteri deboli o squallidi,
in conflitto perenne. O che passano, semplicemente,
sopra la vita, sopra l'anima della gente.
E’ tornata una città povera che quasi
non produce più.
Una città spesso violenta.
Forse siamo sull'orlo di una
crisi sociale che potrebbe sfociare in rivolta violenta.
Lo so, lo so …
Ma so anche che nella nostra
storia c'è già stato anche questo, tante volte e che ne siamo
usciti:
Masaniello, l’oscurità dei vicerè, i canti sguaiati dei Sanfedisti, la borsa nera, la rivolta degli scugnizzi in quelle quattro giornate.
E che
c'è stata l'occupazione americana e i marocchini, e i bombardamenti,
e una
guerra amara che ci ha rivoltato l'anima come un calzino.
E c’è stata La pelle e Napoli milionaria e i racconti di Eduardo e di
Nicolardi, e i vicoli freddi e umidi d’inverno, e il caldo torrido di agosto.
E il caos, la confusione, e le prepotenze dei guappi.
Ma so anche che questa
città è capace, anche oggi che è povera e sbandata,
di ospitare in pace più di
cento etnie e che la nostra cultura è ancora viva e conosciuta in tutto il
mondo e …
La musica napoletana, il
San Carlo,
la pizza profumata e il sole la mattina.
E che siamo un sito Unesco,
patrimonio dell’umanità, forse il più grande.
E che il centro antico è vivo, e non è poco.
E che dove sono perfetti, puliti e lucidati, rischiano di finire
implasticati o svuotati,
come scorze e carcasse vuote nel deserto.
No.
Non ho una visione
incantata di questa terra.
E' questa terra che è incantata. Ricchissima,
sorprendente. Nel bene e nel male.
E’ che qui,
il bello
comprende anche il brutto.
E il giusto, lo sbagliato.
E’ che qui, come diceva
un piccolo uomo: “l'essenziale è invisibile agli occhi".
Lottare, lottare,
lottare, contro a ‘sti fetienti’, certo. Non bisogna mai smettere di lottare:
per
provare a migliorarla, a cambiarla. Per continuare a viverci e non andare via.
MAI.
Lo facciamo tutti i giorni.
Del resto lo sappiamo, siamo gente di confine.
Cum finis.
Ma poi, alla fine, non c'è
altro da fare che amarla.
E quando entri nella
Biblioteca Nazionale, o vai a San Gregorio Armeno o a San Martino, o ai
Vergini
, pe’ ghi' a truvà’ e’ capuzzelle, magari aroppo na bella jurnata ‘e
primmavera …
comme a' na ‘nnammurata - ‘a cchiù disgraziata - te fa ‘na risata
sguaiata,
e si fa amare:
poi, jesce a luna ‘n copp’
‘o Vesuvio ... e brilla ‘o mare ‘e Marechiaro ...
e si fa amare.
Per quello che
è.
"Te voglio bene
assaje", cantava fino a ieri Lucio, il napoletano.
Le sue note
riecheggiano ancora nella notte.
E allora, ti ricordi, checcè ne dicano,
checcè ne scrivano, che qui sei al centro del mondo … ma anche al confine.
Cum finis mundi.
Prendere o
lasciare.
Giacomo Ricci
Molta retorica nei nostri pensieri. Molta fame, poca
concretezza, abbandono, paura, incoscienza. Non lo so. So solo che questa città
mi sta ancora nel cuore, nonostante tutto.
Ma riesco anche ad essere
cinico quel tanto che basta per vedere il grande rischio di cadere dalla banale
retorica di ogni giorno nel ridicolo.
Una città che dovrebbe avere
cittadini coraggiosi e implacabili. In grado di sbattere fuori i politici
corrotti e il malaffare, le truppe di delinquenti che da sempre invadono il
territorio e l'amletica leggera di noi "intellettuali". Ci sono, da
qualche parte cittadini coraggiosi? Se non li vediamo allora rimane solo la
retorica. Quella di sempre. Quella vinta e rassegnata.
E allora è veramente la
fine.
Francesco Escalona
Quello che hai detto, nel mio scritto è nella frase:
"Lottare, lottare, lottare, contro a ‘sti fetienti", certo. Non bisogna
mai smettere di lottare:
per provare a migliorarla, a cambiarla. Per continuare
a viverci e non andare via. MAI. Lo facciamo tutti i giorni. Del resto lo
sappiamo, siamo gente di confine. Cum finis."
Questo brano quando l'ho
scritto però cercava di andare "oltre". Di affrontare un tema un pò
più esistenziale. E' di un anno fa. Una eternità. E forse oggi è già fuori
dal tempo. Ieri sì, ma oggi non più. Forse non è già più il tempo per fare
uscire queste cose dal cassetto e dalla bocca. Ma non posso negarmi che le
penso. E qui si apre un altro capitolo: quello politico. Come uscire da questa
situazione? Come aggregarsi intorno ad un agire politico coerente? Come
orientarsi in un mondo che cambia ogni poche ore? Tutto cambia così
vorticosamente ed indipendentemente dalle nostre battaglie perchè i flussi del
cambiamento arrivano da Taiwan, o dalla Cina, o dal Brasile piuttosto che
dall'India.
Pensa a come vedevamo il mondo solo un mese fa. Prima
delle elezioni. Una opportunità a portata di mano: fuori PDL, Berlusconi e Mafia
dalla politica. Un governo con SEL forte e condizionante come la lega in quello
precedente. Oggi il PDL è al 33 %. E come vediamo svolgersi davanti agli occhi,
questa realtà incomprensibile oggi, e ieri, e l'altro ieri. Sempre diversa.
Come un virus che muta sempre. E come razionalmente, disperatamente cerchiamo di
capire 'sta crisi, leggendo, interrogandoci vicendevolmente.
Dov'è
l'aggregazione a cui attaccarsi, attorno a cui serrarsi, il pensiero
condivisibile, chiaro, il sol dell'avvenire? Partiamo. ma in che direzione
andiamo? Qual è la meta?
Lavoro per SEL, nella mia sezione di Bacoli. Bravi
ragazzi. Appassionati. ma già a Napoli, .... Dove sono "quei cittadini
coraggiosi e implacabili. In grado di sbattere fuori i politici corrotti e il
malaffare, le truppe di delinquenti che da sempre invadono il territorio ...
" Dove sono? Non li vedo. Non li vedo in SEL (ci sono dentro) non
li vedo intorno a de Magistris, a Grillo: massa di pecoroni, sbandati e
isterici, ignoranti di politica.
Resto perciò ancorato ad un pensiero lungo,
profondo, storico, di lunga gittata, che ho provato a scrivere, che appare
retorico. Per tracciare una visione, una strada, per andare avanti di qualche
passo. Per non cedere alla disperazione.
Addà passà 'a nuttata.
Che poi alla
fine, anche se ora non serve, è la verità. Ma non è rassegnazione, ti assicuro.
Non sarei qui a scrivere questo. E' il costruirsi uno scoglio a cui
aggrapparsi. Tutto passerà. Ma Napoli, resterà più o meno sempre simile a se
stessa. La sua bellezza, oggi è conforto.
Giacomo Ricci
La tua incazzata
disperazione è la mia. Io sono più vecchio e la sensazione che provo è quella
di aver fallito tutto. Ma proprio tutto. Alla mia età si tirano le somme. E non
tornano. Sia sul piano personale che su quello più generale, politico. Il PD è
un aborto, un orrore, una stupidità fatta a sistema. Tutti gli altri, Grillini
in testa sono inqualificabili. Resta SEL che però è in netta minoranza. Nessuno
si fila più i comunisti o quello che ne resta. Io sono ancora comunista e ho
sempre visto in queste crisi del capitalismo in decadenza quello che diceva
Marx di cui non si parla più. E' una fase storica. Deve fare il suo corso e noi
non ci possiamo nulla.
Napoli è bellissima. Lo so e sono d'accordo con
te.
Ma è sconfitta dall'annessione, dall'Unità d'Italia.
E' la capitale di uno
stato sconfitto che non esiste più. E anche in questo consiste la sua bellezza.
Una bellezza amara, tragica, immobile.
Un popolo immobile e vinto. Che se ne
fotte dei governanti. Che se ne fotte di De Magistris e degli altri. I De
Magistris passano.
Questo popolo rimane. Sconfitto. Avvilito e furbo.
E' un
popolo sotterraneo ormai. Altro che solare.
Il mare, il sole, la pizza sono simboli vuoti. Non significano più nulla.
Anche se sono alla radice della bellezza di Napoli.
Sono vuoti, come simboli,
come linguaggio. Non parlano più.
Per tornare a contare ci vorrebbe una specie
di miracolo. E noi non siamo attrezzati per i miracoli. Non sappiamo fare
neanche le cose più banali di ogni giorno.
Capisco e condivido la tua
incazzatura. E' anche la mia, come ti dicevo.
Ma rimane tale.
Non possiamo fare
nulla.
Ho tentato di scriverlo nel capitolo finale di Lazzari.
La sconfitta e il senso senza senso della nostra
condizione di napoletani.
Lo riscrivo qui. Così mi spiego meglio.
Tornavo a casa.
Tardi. Voci per i vicoli
s’inseguivano come pallida eco di persone scomparse.
Rosetta era scappata al
paese. Tra cani, gatti, alberi. A rigovernare cose che aveva per troppo tempo
rimandato, dati gli avvenimenti. Era tra le sue piante, i suoi fiori,
nell’orto, nella fidata natura del suo giardino, tra le amate bestie. A
guardare il mare che si vedeva da casa sua. Dall’alto come un’infinita distesa
di blu profondo.
«L’azzurro fa bene, allo
spirito e alla salute» mi diceva sempre.
Da casa sua il mare era
protagonista assoluto. Riempiva tutto il campo visivo. La casa stava in alto,
sul picco di una roccia che cadeva a piombo verso il basso. Da là sopra si
dominava l’intero orizzonte. E il mare appariva verticale, una distesa enorme.
Come non l’avevo mai vista in vita mia, una forte emozione.
Per i vicoli la puzza della
spazzatura si era un po’ attenuata. Disinfettavano con cloroformio e altre
schifezze varie. Trascinando via la munnezza dal quartiere -ma dove l’avrebbero
portata stavolta? - tentavano di cancellare le tracce della rivolta popolare. E
già, la rivolta era come la munnezza. Cose disdicevoli, da togliere dalla vista
dei buoni cittadini. L’odore acre del disinfettante, mescolato ai miasmi dei
rifiuti in decomposizione fluiva nei miei pensieri di disfatta. L’effetto, su
di me, era nauseante, devastante.
Umor nero il mio. La mia
era una sconfitta incondizionata perché non capivo la ragione, la sostanza
degli avvenimenti. C’erano cose che mi sfuggivano. Storie incomplete. Uomini
mai messi del tutto a fuoco che sparivano all’improvviso dalla mia vista. Ire
dimenticate, fuochi rapidi ad accendersi e spegnersi. Aneliti dissolti senza
lasciare traccia. Animi dilaniati che si erano di colpo acquietati. Scenari
smontati troppo in fretta, speranze naufragate, conciliazioni assurde e
inaspettate.
Tutto era tornato pacifico
come prima. Per me un paradosso insopportabile. Come se nulla fosse stato. Da
qualche parte doveva pur esserci il capo di quella matassa informe.
Tutto, alla fine, rientra,
si ricompone.
Ormai m’ero fatta l’idea
che a Napoli questa fosse la norma. Come se nulla fosse. Una città splendida
ridotta a un’immensa buca di spazzatura. Spazzatura vera e come metafora. E
tutti tolleravano tutto.
In un momento sembrava che
la terra dovesse inghiottire i prepotenti e la loro arroganza, che il popolo
potesse cancellare tutto, conquistando la sua indipendenza, e subito dopo tutto
si dimenticava.
Il destino? Un disegno
superiore già tracciato, contro il quale non potevi nulla. Era la terribile
Nemesis, priva di qualsiasi scrupolo. Tutti erano vittime del suo capriccio,
inutile ribellarsi. L’antica rassegnazione del popolo napoletano, ereditata
dagli antichi greci, mi penetrava sotto la pelle. Mi narcotizzava. Che ci
volevi fare? Mi ripetevo senza convinzione. Incazzato nero.
E Aitano? Sembrava sparito.
Anche lui inghiottito nel nulla.
Un popolo, una plebe che
ogni tanto s’infuoca. Si ribella e sembra che voglia mangiarsi il mondo.
Episodi di ribellione come
strani punti di una storia di sottomissione, nodi di rabbia che esplode e che
poi svaniscono nella merda del quotidiano, avvilendoti ancora più di prima.
Donne che cacciano i tedeschi e la loro protervia, la loro violenza cieca,
rozza e bastarda. Ragazzotti scalzi che mettono in fuga gli eserciti spagnoli,
spingarde, cavalli e archibugi. Altri ragazzotti con le scarpe rotte che
lottano contro i carri armati. Come ce li aveva raccontati Nanni Loy.
Il popolo è sempre stato lo
stesso. Debole e confuso. Disperato e impotente. Vigliacco e cialtrone.
Avvilito, rassegnato. Incazzato e violento. Ma poi si è sempre piegato. Come
Cristo al suo destino. Abbracciando la sua croce.
A ognuno la sua croce.
Nel Seicento come oggi, in
questo momento. Le teste non cadono com’era facile cadessero allora a Piazza
Mercato. Ma la logica è la stessa. Chi può approfitta e diventa spietato,
tradisce la sua gente, la rinnega. Scimmiotta quelli che l’hanno tenuto fino a
quel momento in scacco. Così i deboli diventano prepotenti e gli umiliati si
trasformano in torturatori. Poi c’è la specie più infame, quelli che fanno le
veci dello stato e ne ricavano soldi. Gli arrendatori, gli speculatori, gli
sbirri di tutte le epoche. I soldati di ventura, quelli che distribuiscono la
morte a pagamento. Quelli che prendono il pizzo. Appoiano a liubarda,
appoggiano l’alabarda, cioè sfruttano tutto, come la soldataglia spagnola, data
in affidamento a una famiglia. Diventavano padroni di ogni cosa, letto, cibo,
soldi, mogli, figlie e bambini che destinavano a fare le puttane, allo schifo
della strada e si piazzavano in casa da piccoli tiranni parassiti, riducendo i
maschi di casa a schiavi, a pulire loro il culo. Turpi soldati, feccia degli
uomini.
La plebe ogni tanto esplode
per la rabbia. Ma poi, come dice Malaparte, si chiude, ripiega nella solita
rassegnazione. Sopporta tutto. Accetta il destino che scende dall’alto. La mala
sorte s’infila in ogni connessura della realtà come un morbo letale e
inevitabile. E tutti ne soffrono, sembra ne debbano morire, ma alla fine, non
si sa come, sopravvivono, in qualche modo.
Napoli ha accettato il suo
destino, centocinquant’anni fa, quando è stata declassata, non più capitale di
un regno, ma simbolo della vergogna e dello sfacelo del sud d’Italia. Capitale
di una terra di frontiera, di un deserto. A capitale ra’ munnezza.
Un popolo in guerra, in
prima linea. Come se niente fosse. Nel Settecento grande città d’Europa, seconda
solo a Londra e Parigi, oggi è la sua pattumiera, proprio alla lettera perché
da tutte le parti qui si vengono a versare merda e prodotti tossici. La plebe
ha accettato di non avere più un re. Ha permesso che la memoria dei suoi re,
ritenuti da tutti maledetti, inetti, arroganti, barbari, fosse disprezzata. Che
tutto fosse annullato. Che la grandezza del Settecento napoletano svanisse come
un fuoco fatuo, una nebbia, un sogno.
I Napoletani hanno
sopportato e sopportano, come inevitabili, gli insulti della parte più stupida
di questo condominio piccolo borghese di merda al quale l’Italia s’è ridotta.
Sopportano la strafottenza della peggiore classe politica che ci sia stata
negli ultimi due secoli. Una barzelletta, peggio, una truffa, una congrega di uomini
da niente. Subiscono l’arroganza della delinquenza più proterva e bestiale.
Lasciano che le loro sorti dipendano interamente dal capriccio, dall’ignoranza
e dalla convenienza dei piccoli re delinquenti che proliferano come vermi su un
cadavere in decomposizione, i piccoli boss, i miserabili che si credono grandi
padreterni.
I napoletani sono cavie.
Fenomeni da baraccone. Da mettere in mostra come freaks. Storpi, nani
ripugnanti, con due teste e un cazzo floscio al posto del naso.
Roba da depravazione. Da
fare il solletico e accendere le voglie di tutti i devianti del mondo. Fuck
you.
Come quella donna in tuta
verde pisello. La tuta e il colore ne esasperano la pinguedine. Col grasso che
le scivola sulla vita da tutte le parti, un sorriso brutto e sdentato. Canta Dove sta Zazà,stonata, fuori tempo e
Turturro la mostra, per quello che è. Senza alcun pudore. Proprio perché è
così. In una nuova estetica del piatto orrore quotidiano del vicolo più infame.
E, incredibile a dirsi,
quel fenomeno da baraccone diventa addirittura bella, fa tenerezza. Grandezza
dell’arte e miseria della realtà più bassa. Sullo sfondo un cumulo di
spazzatura. Sui muri, sporchi di secoli, graffiti sgrammaticati, lettere
perdute di un’ignoranza che non ha più significato. Che non dovrebbe più aver
ragione di esistere.
Una Napoli così com’è.
Privata dell’irritante, menzognera e consunta iconografia classica. Quella dei
miei ricordi da piccolo. Ridotta allo scheletro. Niente mandolini e putipù. La
tarantella in costume non c’è. Non ne sopravvive nemmeno la memoria. Quello che
dovrebbe somigliare al ricordo è, in realtà, un de profundis recitato a mezza voce, senza troppa convinzione,
pensando ad altro.
Ma tutti ballano lo stesso.
Al di là della morte. Al di là del bene e del male.
Ballano come fanno la
rivoluzione. Fanno la rivoluzione come se si trattasse di un ballo. Un giro e
basta. Poi tutto come prima.
Questo io non lo capivo.
Ostinati. Cocciuti. Come se
non riuscissero veramente a capire quello che stava loro succedendo. Quello che
gli altri architettavano contro di loro.
Si lasciano osservare. Si
mettono in mostra. Come le scimmie.
Ballano e cantano nei
mercati, tra case sporche e misere. Tra stucchi ormai consunti e volute
barocche mescolate a panni laceri, pietre logorate dal tempo e dalla sporcizia.
Pietre di una passata grandezza e nobiltà, pietre di fuoco spento, ricoperte di
grasso e petrolio. Ogni tanto, tra una finestra sbilenca, un balcone troppo
pieno di panni, fili che corrono da una parte all’altra, pennate di plastica, lamiere,
maree di antenne televisive, parabole, tubi, pluviali e groppi, matasse ritorte
di cavi della luce, intravedi graffiti geniali, sbiaditi, slavati, nascosti tra
le crepe dell’intonaco.
Donne che cantano, ballano
e ridono. Si spingono tra loro e se ne fottono di chi le osserva. Ostentano
gioia. Nella piatta banalità insulsa di ogni giorno.
Nella totale indifferenza
di tutti. Con il mondo intero che osserva, pieno di meraviglia, questo zoo. Che
lo apprezza per quello che è. Un serraglio. Come si guardano le bestie in
gabbia che possono essere pericolose ma che sono ridotte all’impotenza e
impazziscono nello spazio ristretto. L’impressione di stare in un giardino
zoologico è forte e persistente.
Cantano sotto la statua del
Nilo. Nel cuore di Napoli. Una voce bellissima, calda, di un garzone,
improvvisato soul singer, che ti avvolge. Dove c’era una volta il groma, il
centro della città greco-romana ora c’è una folla di turisti che corrono
incarrettati verso Forcella e San Gregorio e cantano anche loro assieme al
giovane.
Cantano, tutti.
Ragazzi dalle voci
straordinarie, melodiose, cupe, armoniose e dolcissime.
Trascinano gli altri a
cantare in coro.
Mi veniva da piangere per
la rabbia. I miei passi risuonavano nella notte del vicolo stretto come squarci
di tempo fuggito via troppo in fretta.
Quella rabbia che monta
sorda, cupa, compressa quando vedi che tutto cade, che tutto rovina e che su
questo disastro tutti stanno a guardare.
Aspettano. Cosa? Che tutto
si compia? O sanno che non c’è più nulla da fare?
Mi chiedevo, ma come fanno
a cantare? Ancora si può cantare?
Mi venne in mente la favola
raccontata da Mario. Tornare alla terra, lui diceva. Quale terra? Quella
devastata, infettata dal lordume del mondo, avvelenata dai rifiuti nocivi che
da ogni parte qui sono convenuti?
E loro, nonostante tutto,
cantavano e ballavano.
Mario, nonostante tutto,
credeva che nella terra ci fosse la salvezza. Se lo dici oggi, anche un
ragazzino ti ride in faccia.
«A terra? Turnammo a faticà
a terra? Giuvino’ ma nun ce facite ridere!».
Un sorriso con denti
bianchissimi e una fossetta che si scava nella guancia un po’ paffuta. Le
palpebre stringono leggermente gli occhi neri, neri e lucidi. Ti guarda per
vedere se veramente ci credi alla stronzata che hai detto o lo stai pigliando
per il culo.
«Cca, into a stu’ mumento,
‘e renare s’hanna fa ‘e pressa. Na botta sola e fuje. E se n’hanna fa pure
assaje. Cchiù assaje ca putimmo» aggiunge, pigliandoti per fesso.
«Forse hai ragione tu. Ciao
guaglio’. Statte bbuono» gli dici poco convinto.
«Se, se. Statte bbuono pure
tu».
Su tutto la musica.
La sentivo nell’aria,
strisciare. Geniale sottolinearne la provenienza arabo-africana. Ritmi
forsennati e corpi che si scatenano sullo sfondo della scala più bella del
mondo. Quella del palazzo dello Spagnolo. Sanfelice era quello che qui chiamano
uno sfaccimmo. Architetto che arravugliava lo spazio, lo arrevutava come voleva
lui. Turn it, Twist it. Un miracolo di bellezza, il luogo, la scena di un
teatro interno, tutto per il nobile che le scende e la carrozza che sotto, nel
cortile, lo aspetta.
Canti e balli. Tutti gli
esclusi di tutte le terre e di tutte le storie cantano e ballano prima di
morire.
Ragazze come invasate. Corpi
elastici e vibranti come corde di un invisibile strumento. Ballano come
indemoniate. Splendide, ti avvolgono e coinvolgono. Ti metteresti anche tu a
ballare. Dove stai, con chi stai, non importa.
E che te ne fotte. Il ritmo
ti prende.
Pensata da uno degli
architetti più geniali di tutti i tempi, la scala più bella del mondo. Ha tanti
occhi e una bocca. Come una maschera che si apre sul vuoto. Una scenografia
allucinata di un tempo smarrito, di un’altra epoca, tramontata per sempre.
Un paradiso perduto.
Come la Napoli dipinta da
don Titta Lusieri, vista da Capodimonte, sotto i raggi dorati d’un sole antico.
Un fasto perduto, un sogno mai sognato. Che affoga nella merda.
Lutamma! Così i napoletani
chiamano gli escrementi del mondo, della gente, la feccia diremmo noi. Così
dobbiamo chiamare chi ha ridotto a merda quella bellezza.
Lutamma, granda lota!
Merda.
Se ci dev’essere al mondo
una rappresentazione della colossale stupidità degli uomini questo avviene,
ogni giorno, a Napoli. Il disprezzo, il vuoto, la noncuranza.
Napoli è il luogo in cui si
sperimenta, da vicino, la stupida, vuota, arrogante ignavia del genere umano.
E sulla distesa sterminata
di rifiuti e di merda galleggia la ribellione di piccoli delinquenti stolti,
bruti, massa informe e sciocca.
Fuochisti pronti a recitare
il ruolo degli sfaccimmi.
Nella più colossale
strafottenza. Uccidono senza pensarci.
Un mondo che se ne va
tranquillamente verso il disastro. Un miracolo buttato con indifferenza nel
cesso.
Questa è l’umanità. Questa
è Napoli ora.
Come avrei mai chiuso il
cerchio delle mie riflessioni verso una conclusione accettabile?
La testa a volte non ci
arriva.
E non basta nemmeno il
cinismo a tirarti fuori. Rimani intrappolato. Si futtuto guaglio’. Fuck it.
Il cinismo è un gioco che
non ci possiamo più permettere. Uno stare alla finestra che ti fa simile al
criminale, al fuochista impazzito che uccide per gioco. Che spara ai
Ferrajuolo, due vecchi e li fredda. Senza pietà.
Facile il cinismo. Da
stupidi. Mi sentivo in trappola. Non c’era via uscita se non scappare.
Fuggire. Via, via, più in
fretta possibile. E poi? Il male restava e avanzava.
Aitano. Dov’era? E Menico?
Una storia dolorosa,
informe e sozza, lorda mi cadeva addosso come un mucchio di stracci infetti
sfilati dalle membra corrotte degli appestati.
La peste. Aveva forse
ancora un significato. C’era ancora come nel ‘56. La trista, nera signora
deforme col corpo illividito dai malefici bubboni. Sozza e spietata.
La peste non era mai andata
via. Se n’era stata in agguato per più di quattrocento anni, rintanata in un
nero, lurido buco, pronta a ghermire.
Aveva ragione Malaparte.
“Non corrompeva il corpo, ma l’anima”. Ma non era faccenda morale come lui
aveva creduto, un’intima, lacerante decomposizione dell’antica, preziosa
sostanza degli uomini. Era una componente stessa della vita. Stava attaccata ai
muri dei palazzi, agli stipiti delle porte, ai rigonfi piperni barocchi dei
sontuosi portali dei palazzi di Toledo. Alle scale e ai basoli del pavimento.
All’aria che respiravi. Quando uno è malato e la malattia si trascina, che fa?
Si rassegna. E, per eludere
l’angoscia della fine prossima, canta con il fiato che gli rimane, canta con
ostinazione.
E gli altri? Stanno a
guardare. Aspettano. Qualcuno insulta. Qualcuno prova pena. Qualche altro trova
lo spettacolo noioso e va via. Allora sei veramente morto.
Che dire di tutto quello
che avevo visto in quel paio d’anni, in quell’inferno barocco e contorto che mi
era passato ogni giorno sotto gli occhi?
Anche ogni tentativo di
ribellione si perdeva nel vuoto, in una misera recita senza senso. Non si
sapeva da dove cominciare, dove finire. Tutto era sconnesso. Le cose
s’inseguivano senza alcuna ragione.
Questo è il caos? Ogni cosa
si muove per i fatti suoi. Infiniti vortici impazziti che vanno a spasso a
devastare le loro piccolissime porzioni di spazio.
Riflettevo. Tutto si era
compiuto. Tutto era rimasto sospeso. A mezz’aria. Ogni cosa riassorbita senza
una giustificazione. Senza che gli avvenimenti, come si aspetta ognuno che
abbia ancora un filo di lucidità nel suo cervello, nella loro drammaticità,
avessero un qualche seguito, un fine, una ragione, una conclusione.
Così terminano le storie a
Napoli. Tutto si riassorbe in una totale, piatta rassegnazione.
Tutto rientra al di sotto
della scorza della normale, banale disperazione quotidiana. Chi soffriva, torna
a soffrire. Chi rideva, ride ancora come uno stolto. E chi rubava, continua a
farlo, imperterrito.
Un destino?
Forse. Certamente una
maledizione che stagna, grava su questa città che ora si sommerge sotto un
oceano infinito di rifiuti. E tutto scorre. Chi cantava continua a farlo. Una
specie di “preghiera” ha detto John Turturro.
Una storia senza morale,
senza lezioncine per nessuno.
C’era da aspettarselo.
Io però non ero convinto. Da
qualche parte, sotto quell’umanità negata, covava un fuoco. Così mi sembrava.
Night guaglio’.
Francesco Escalona
E’ veramente molto, molto bello questo capitolo di Lazzari, nella sua allucinata decadenza
melanconica.
Hai ragione. Non potremo fare più nulla per cambiare le
cose.
Perchè siamo una minoranza dispersa.
Perchè non abbiamo più
tutto il tempo necessario.
Perchè non tocca più a noi fare la
rivoluzione. Tempo scaduto sancito dal mal di schiena.
Ma, per me,
dobbiamo fare tutto il possibile per lasciarci vivo lo spazio del sogno.
Perchè
è questo il messaggio che possiamo, dobbiamo lasciare, noi, vissuti a cavallo di
due ere diverse.
Solo noi. Nessuno prima e nessuno dopo.
Che poi
quello del sogno, è il mio spazio vitale e, a mio parere, l'unica strada che
rimane aperta perchè tornino i tempi azzurri.
Ma non è questo, quello in
cui spero. Non mi è dato sperare così tanto.
Ma l'aver fatto tutto il
possibile, mi da il diritto di aprire la porta del sogno.
Ed è solo
quella porta mi fa ancora vedere, nelle pieghe, quello che in
"Lazzari" intravedi solo nell'ultima frase. Una possibilità.
Di
questo abbiamo bisogno per campare. Di avere sempre "almeno una
possibilità". Mi sforzo così, di ricomporre frammenti. Continuamente...
Ossessivamente.
Divento una sorta di google umano. Come per quel gioco
della settimana enigmistica, passo le mie giornate a comporre una immagine
soddisfacente i frammenti di bellezza raccolti quà e la.
Frammenti che da soli
non fanno una Storia, una narrazione, ma che, ricomposti, mi disegnano
"una possibilità", una speranza. Vivo nello spazio di quella speranza,
in quel disegno contornato da numeri e puntini. Ed ogni giorno, sono impegnato
a ricomporre pezzi dei confini assediati, oggetto di assalto della realtà.
Dalla concretezza. Dal cinismo disperato.
Certo.
Perché, non esiste più
quella Napoli romantica di sogno.
Ma, è mai esisitita? O anche quella è il frutto di un manipolo
di cruciverbisti ante litteram che ricomponevano la Gouaches colorata ogni
giorno e la riproponevano acquerellata? E' mai esistita la Napoli romantica
delle canzoni di Di Giacomo? Di Libero Bovio? O, anche loro, su una materia
sempre uguale, passavano le giornate a ricomporre le tessere di mosaico
ritrovate?
Cosa c'era in quelle case disegnate sotto quel cielo così blu?
Forse solo la Napoli di Matilde Serao, della selleria del Colera, di una Napoli
non bagnata dal mare. Mentre E.A.Mario componeva i frammenti in melodie
romantiche.
Ora vado. ho ancora un pò di tesserine da mettere in
quadro.
Anche oggi mi mancano dei pezzi. Cercherò di ricostruirli come
piace a me.
Metterò molto azzurro ed un pò di Giallo… color tufo.
Naturalmente.