di Claudio Cajati
La mia
vita? Bersagliata sin dall’infanzia.
Quando
sono nato ero così brutto, a unanime parere dei miei genitori, di parenti e
amici, che subito fu deciso di stendere un velo di organza nera sulla culla. E
la cosa, per quanto terribile, fu accettata da tutti.
Quando
venne il periodo di giocare al ‘dottore’ con le bambine, solo apparentemente
pudiche, in effetti sfacciate e disinvolte, loro accettavano di farlo con tutti
i ragazzini del rione, tranne che con me. E se mi azzardavo a chiedere il
perché, mi lanciavano senza parole uno sguardo di disgusto e commiserazione.
Alla
scuola media ero di gran lunga il primo della classe. Questo scatenava la
rabbiosa invidia dei compagni mediocri, che non erano pochi: prima mi
prendevano in giro per la mia bruttezza, poi mi minacciavano, infine,
all’uscita dalla scuola, mi tendevano in gruppo agguati e arrivavano a pestarmi
a sangue.
Al
liceo m’innamorai di Eloisa, una ragazza bellissima, che mi sembrava anche
dolce e comprensiva. Dopo una penosa lunghissima titubanza, mi decisi a
rivelarle il mio sentimento. Lei non perse un istante per rispondere: mi guardò
stupita, poi sprezzante, e mi disse soltanto, con la sua voce acuta e
penetrante: “E tu, brutto anatroccolo, pretenderesti di fidanzarti con una come
me?”
Venne
l’età in cui sentii il desiderio di accasarmi. Ma tutte le ragazze mi
respingevano. Credo fosse sempre per la mia bruttezza, e nonostante facessi di
tutto per mostrare quanto ero brillante e arguto, quanto potevo risultare
simpatico, quanto ero buono affidabile leale. Infine la spuntai: accettò di
fidanzarsi con me Genoveffa, una brava ragazza offesa a una gamba a causa della
poliomielite.
All’Università
mi laureai in Scienze dell’alimentazione. Avrei voluto fare la carriera
accademica, ne avevo il talento, la passione e i titoli. Ma a tutti i concorsi,
per quanto originali e dotte fossero le mie prove, regolarmente mi bocciavano. E
lo facevano con una sorta di profondo fastidio e sordo disprezzo. Presto mi
fecero capire che era meglio se rinunciavo. Quasi una benevola minaccia.
Ero
spesso in giro alla ricerca di un lavoro. Un giorno, tornando a casa, trovai
mia moglie (Genoveffa l’avevo sposata) a letto con un altro. Ero rabbioso ma
non gli feci niente. Anzi fu lui, altissimo e robusto anche se zoppo, a
picchiare me. Quando volli chiarirmi a quattr’occhi con Genoveffa, lei mi sparò
in faccia: “Io ti ho sposato per compassione, io non ti ho mai amato.” Qualche
giorno dopo scappò di casa con quell’energumeno. Io rimasi a fare da padre e
madre a nostro figlio Romano.
Svanita
la prospettiva della carriera accademica, avevo ripiegato sul commercio, però
legato alla mia formazione universitaria. Insieme a un mio amico e collega di
studi aprii un minimarket di prodotti bio. Le vendite andavano a gonfie vele. Ma,
nonostante il prezzo elevato dei prodotti, la cassa languiva. Ci misi un po’ di
tempo però, alla fine dell’investigazione, scoprii che la cassiera rubava, e lo
faceva in combutta con il mio socio. Resistetti il più a lungo possibile, ma
alla fine fui costretto a chiudere.
Dopo
la chiusura del minimarket bio, mi sono arrangiato con vari lavori legati al
mondo dell’alimentazione. Ho provato a fare il nutrizionista, ma dopo qualche
tempo la clientela si è assottigliata fin quasi a sparire: la gente ormai usa
disinvoltamente il computer, anche per cose delicate come l’alimentazione. Io
sono un esperto, affidabile, ma sono una figura patetica del passato. Insomma
mi sono ridotto economicamente proprio male. Così, per quanto fosse umiliante,
ho chiesto aiuto a mio figlio Romano. Lui è benestante, fa il professore
ordinario alla Facoltà di Ingegneria. Ebbene si è rifiutato di aiutarmi – mi ha
appena invitato qualche volta a pranzo la domenica – accampando la scusa delle
sue spaventose spese familiari, la casa, la moglie, i figli…
Non
fumo più da decenni, e da allora sono stato anche molto attento a evitare il
fumo passivo. Eppure l’altro giorno da un check up di routine è risultato che
ho un tumore ai polmoni. Si è fatta la biopsia: il tumore è maligno e, per di
più, in uno stadio avanzato. Cedendo alla mia insistenza per sapere, mi hanno
diagnosticato dai due ai tre mesi di vita, al massimo.
Ciononostante…
Ciononostante,
in tutta la mia vita, il male che non mi ha risparmiato nell‘abbattersi su di
me, è andato a vuoto. Come protetto da una cera magica su cui ogni offesa della
vita scivolava via. Poteva sembrare che nessuno mi volesse bene, ma io ho avuto
un’amica fedele, un’amica che non mi ha mai tradito e abbandonato: la Gioia. Quelli
che conoscono cosa è stata la mia vita, non si capacitano che io possa essere
sereno e positivo. Ma cosa m’importa? So io questa forza calda e tenace che mi
pervade e mi avvolge a dispetto dei colpi che vengono dall’esterno, destinati a
essere parati e respinti. Tutto il male che ho ricevuto, sin dalla nascita, non
mi ha potuto scalfire: come non si può scalfire un diamante con pietre meno
dure.
Io
resto splendidamente intatto, stretto abbracciato all’amica Gioia. E così
accoglierò, trionfante a braccia aperte, anche la morte.