di Giacomo Ricci
A volte gli avvenimenti della vita
reale sembrano annichilirci. Sbatterci in una zona di sgomento dalla quale è
difficile venir fuori.
Ma riflettendo sulla scomparsa di
un gruppo di architetti cui personalmente ero molto legato, si trova anche il
coraggio di riflettere.
Gaetana Cantone, Benedetto
Gravagnuolo e Luciano Scotto erano tre amici. Tutti e tre, in questi ultimi
tempi, ci hanno lasciati.
Amici profondi. Non perché o non
tanto per la frequentazione che era, in questi ultimi anni, più rada e
silenziosa.
Per la storia che ci legava e ci
lega ancora.
Usavamo, nel parlare tra noi, nel
nostro lavoro, nel fare riferimento a un gruppo di idee che ancora ci girano
per la testa anche se nascoste e seppellite da un mondo che non ci piace, il
termine generazione.
Generazione,
una parola, quasi magica e inafferrabile,
che sembrava sempre sfuggirci, sapere un po’ di retorica e un po’ di vuoto.
E invece, di colpo, adesso, me la sono trovata
davanti in tutto il suo spessore, in tutto il suo significato.
Fabrizio Mangoni ha scritto a
Luciano Scotto, ricordandolo:
“Volevamo cambiare il mondo e non
ci siamo riusciti. Ma il mondo non è riuscito a cambiarci”.
Dice così una verità della nostra generazione. Identifica noi e l’epoca
alla quale apparteniamo, siamo appartenuti.
La terra dalla quale tutti noi
proveniamo.
Ci legava, ci lega ancora, ci
legherà sempre, l’idea che avevamo tutti. Ognuno a modo suo. Ma ce l’avevamo
tutti.
L’idea di cambiare il mondo.
Tutta una generazione di ragazzi, di giovincelli credevano che con le idee e
la passione si può cambiare il mondo.
Ed ecco che vedo Benedetto
Gravagnuolo a vent’anni.
E’ a fianco a me, seduto a un
tavolo da disegno dell’aula 2, la grande aula con le colonne al secondo piano di Palazzo Gravina.
E’ primavera.
Di fronte a noi Riccardo Dalisi,
assistente del professore Capobianco. Stiamo discutendo del progetto. E ci
accaloriamo sul senso “collettivo” di alcuni spazi, del teatro, del fojer,
della sala per la musica, del pubblico che, immaginiamo, vedrà la
rappresentazione in quel complesso teatrale.
Tutto inventato: il complesso, il
teatro la musica, i suonatori, il pubblico, le tensioni, le evoluzioni. Tutto
tranne la nostra idea fissa: “cambiare il
mondo”.
Il progetto che faremo avrà la
forza di cambiare il mondo.
Tutti noi ci crediamo. Anche
Dalisi. Magari più di noi.
A quel tavolo stiamo discutendo di
come fare, come procedere. Tutto avverrà come noi pensiamo debba succedere.
Come crediamo che in quella sala,
con le nostre idee che inseguono quelle di Grotowsky, del Living Theatre, di
Artaud, avverrà un cambiamento, le idee sconfiggeranno il valore venale della
vita.
La vita cambierà e gli uomini
saranno liberi.
E’ certo. E’ moneta suonante il
nostro pensiero.
E ci accaloriamo per un dettaglio,
per il colore del tendone.
“Rosso” dico io “come la bandiera
del proletariato”.
“Troppo didascalico” dice Dalisi.
“Il rosso non è mai didascalico” controbatte
Benedetto.
E così via. Alle nostre
chiacchiere si uniscono gli altri e a poco alla volta una generazione sogna.
Costruisce il suo sogno.
Non siamo mai andati oltre il
sogno.
Non ci sono andato io con i miei
disegni allucinati.
Non c’è andato Benedetto con il
suo lavoro rigoroso di storico. Neanche quando è diventato preside, molti anni
dopo, di quella stessa Facoltà che l’ha visto giovane e ribelle.
Non ci è andato Dalisi con le sue caffettiere, i suoi
Pollicinielli di latta, le sue sedie di cartone e il lavoro con i ragazzi del
Traiano.
Ma che resta di tutto questo?
Nulla. Forse.
Restano i residui del sogno. Che
non sono cosa da poco.
Come generazione, abbiamo, al di là delle
nostre storie diverse, un’appartenenza comune. Per l’appunto una generazione
come dice Fabrizio, che non ha "cambiato il mondo".
Un mondo che se ne fotte di noi e ci vede andarcene uno
dopo l’altro.
Ma “il mondo non ci ha cambiati”.
Ricordo di Benedetto le lunghe
discussioni a casa mia a Baia, con Pasquale Belfiore e i racconti di fantasmi napoletani
e di palazzi nascosti e “strani”.
Ricordo di Benedetto le sue parole
quando ha presentato tante delle mie mostre. Sempre pronto a leggere disegni, a
inventare, ad appoggiare gli sfreniesiamienti fantastici di uno della sua generazione.
Forse il ricordo di ognuno di noi
si perderà. Anzi è certo.
Ma credo che non si perderà l’idea
che abbiamo fatto parte di una generazione
che non ha cambiato il mondo, ma che, nel cuore, non è stata modificata dal
mondo.
Nonostante tutto, nonostante la storia.
Anche nei momenti più difficili.
Il mondo non ci ha cambiati.
Ciao Benedetto, compagno di cose
serie e di sciocchezze. Siamo della stessa generazione.