in ricordo di Vittorio Losito
di Giacomo Ricci
Ho finito proprio adesso di scorrere tutti i dipinti che Vittorio Losito ha postato, negli ultimi tre anni, sul suo sito di FaceBook. Metto da parte la commozione e presto attenzione alla grande quantità di opere che mostra, lì raccolto, il lavoro attento, speculativo e intelligente di un amico che non c’è più da un giorno.
Scrivo per ricordare, dentro di me, le cose che me lo hanno fatto apprezzare, come amico ma prima di tutto come galantuomo e, soprattutto, artista.
Perché Losito è un grande artista, che s’infila, con garbata prepotenza, direttamente nella tradizione pittorica italiana che affonda le sue origini nella pittura italiana del tardo duecento e va avanti fino ad oggi, passando per Rosai, De Chirico, Morandi, la metafisica e Carrà.
Un innovatore Losito, intransigente e attento, in un’epoca che degli imbrogli informali ha fatto il suo pasticcio incolto e affaristico che opprime, da decenni, la pittura contemporanea.
Figurativo, capace di deformare la realtà, a seconda dei sentimenti, le passioni personali e, soprattutto, l’indignazione intellettuale. Non posso non ricordare un certo Van Gogh e la sua espressionistica visione del mondo.
Una pittura essenziale quella di Vittorio Losito, ma non per questo non raffinata, complessa, piena di simboli e riferimenti colti. A leggerla bisogna sapere la storia di Vittorio, la sua capacità grande di studioso, di uomo colto, il suo passato e perduto impegno politico. Ampiamente superato con grande respiro, direi. Superato in una visione più ampia e complessiva della realtà e delle sue contraddizioni. Filosofica, colta e letteraria assieme.
Un artigiano raffinato, come non ce ne sono più. Che amano il loro mestiere, l’arte delle mani che traccia forme-concetti destinati a durare nel tempo.
Simboli dell’infanzia popolano le sue pitture-sperimentazioni, aerei, palloni aerostatici, case, campagne, alberi, ombre nascoste, grandi insetti con velati richiami kafkiani. Antropologhi dalle lunghe mani ossute e nervose. Fotografi che spiano la realtà dietro straordinarie macchine ottiche. Aerei e vascelli alla conquista delle dolci colline umbre.
E insetti che fanno una grande pena nella loro chiusura, nel loro trascinarsi verso l’uscita dal labirinto nel quale, inconsapevoli del destino, che pure in qualche modo avvertono, si dibattono.
Facile metafora della nostra vita inconcludente e, a volte, disperata, assurda, penosa, lacerante.
Su di tutto l’aria dolcissimamente malinconica della terra umbra intesa come archetipico territorio culturale italiano delle origini.
Terra di riflessioni, di passati artigiani della forma che lavoravano nelle corti di illuminati mecenati o di feroci feudatari.
Una storia che a poco alla volta scorre sotto i nostri occhi e, anche al di là della voluta incomunicabilità dei simboli (per questo più preganti e allusivi) va dritta dritta al cuore e alla mente. Alla parte più nascosta della nostra anima pensante, quella dove riposano i segni della vita più semplice, sedimentati mentre eravamo bambini alla scoperta del mondo, del linguaggio e della complessa sofisticazione delle parole che si fanno concetti, interpretazioni della realtà. E che tentano di tracciare una possibile strada da seguire, per venir fuori dall’incomprensibile rompicapo che è la vita.
Lo ricordo Vittorio, sul suo bellissimo terrazzo di Baia, affacciato sul mare, giocare e correre con Ulisse, cagnone nero, dolce come solo i colossi sanno essere, gli “omaccioni” grandi da fuori, ma piccoli e teneri nel cuore.
Ciao Vittorio, so che Ulisse t’è venuto incontro, quando hai varcato la soglia. Ti aspettava con gli occhi attenti e frementi di rivederti ancora. E ora correte felici. Sapere che sei in sua compagnia rende meno insopportabile la tua lontananza.
al sole