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ebook di ArchigraficA

mercoledì 10 agosto 2016

Consegna di un mondo


Caro Nicola,

più che fare una recensione vorrei raccontarti, in una specie di mail-lettera, quello che il tuo libro ha suscitato in me.
E’ stato una sorpresa. Non per le foto che mi aspettavo così belle e intense, perché conoscevo già la tua bravura di fotografo da quello che pubblichi sul web. Ma perché si tratta di un libro che viene da un altro tempo.
Un tempo che quelli della nostra generazione sentono proprio e a un passo da noi. Un tempo lungo, che ha attraversato la storia di noi uomini del sud, per centinaia di anni ed è rimasto immutato.
Un tempo fatto di occhi profondi e neri, corpi nascosti da abiti neri con facce segnate da espressioni intensissime di coro greco, di commento alla storia dell’eroe che segue il suo destino. Di corpi e di mani che sembrano architetture per i solchi, le vene, le macchie, le rughe che segnano la pelle come le montagne segnano le valli. Di architetture rugose ed espressive come corpi  che si abbarbicano a un’altura e sovrastano una valle piena di campi. Di semplicità dei gesti, delle espressioni e delle mani che segnano l’aria. Di un mondo che, come dici, tu consegni a chi vuole intendere, a chi sa cogliere e  abbia voglia di sentire nel profondo, al di sotto della pelle, nelle pieghe dell’anima.
Il futuro ha un cuore antico mi verrebbe di dire. Una frase di Carlo Levi che è forse l’unico del nord ad aver capito profondamente il sud d’Italia.
Ma non è più così.
Perché questo mondo che le tue foto dipingono con straordinaria acutezza e profondità è passato. Non c’è più.
Il “progresso”, ma sarebbe meglio dire, l’omologazione, la globalizzazione, l’era delle TV spazzatura, i media di schifo, la pubblicità sopra tutto, il “contemporaneo” con il suo orrore senza senso, insomma, l’hanno spazzato via. E non ne hanno cancellato solo la forma ma anche quell’insieme di valori, quell’equilibrio profondo e sostanziale che gli uomini avevano costruito tra sé, le loro architetture e la terra, la madre terra che dava loro da vivere.
Vita difficile, dura  come emerge dagli sguardi e dalle mani dei vecchi che la tua macchina ha colto, ma che era fatta di un esemplare equilibrio tra le cose, i sentimenti e il costruito in cui tutto era alloggiato.
Così le pietre, i tetti di Orsara con la loro tessitura scolpita nel chiaroscuro di tegole armonizzate l’una all’altra, gli archi nascosti, le strette vie innevate e le figure lontane che camminano lentamente, la piazza, la festa, gli ottoni della banda, le persone sedute sui gradini in piazza, le mani che lavorano, le botteghe, rimangono nelle tue foto come reperti, testimonianze di un tempo che non c’è più, frammenti e residui, icone e segni di un’archeologia di un’anima sparita per sempre.
Un’anima che sopravvive nei nostri ricordi, nella persistenza della memoria che, nonostante tutto, non s’arrende, non molla. Crede e spera che il futuro debba avere ancora un cuore antico.
Ma temo che non sia più così.
Quando vedo la follia collettiva di intere folle concentrate sui loro cellulari a scovare chissà che cosa, senza guardarsi attorno senza cogliere minimamente le fattezze dello spazio che li circonda, quando vedo l’orrido linguaggio del cemento che ha divorato, nello spazio di non più di cinquant’anni, ogni segno del passato, quando mi rendo conto che i vecchi sono, per questa folle società dei consumi a tutti i costi, una zavorra da gettare via, da richiudere in maledette case di cura, mentre invece in quel mondo che tu hai ritratto, sono il centro del senso e dell’attività, mi si chiude il cuore.
I vecchi sono, nel mondo che tu ci consegni, quasi sempre con i bambini.
E una cifra di lettura quella che tu ci mostri. Le generazioni più anziane, nel corso del tempo, sono sempre state accanto a quelle più giovani. Per una profondissima trasmissione di esperienze e interpretazione dello stare nel mondo. Così l’inizio e la fine della vita dell’uomo finiscono per congiungersi in una semplicissima e mirabile chiusura di senso e significato. Si nasce, cresce e muore in armonia con le pietre delle costruzioni che ci accolgono, con la natura che ci restituisce il duro lavoro con i suoi preziosi frutti, in un ambiente pulito, ordinato, dove ogni cosa ha il suo posto e c’è un posto per ogni cosa.
E questo le tue foto lo raccontano senza equivoci. Un racconto che viaggia sereno e raggiunge il cuore di ognuno di noi che ha cara la sorte degli uomini e delle loro storie.
E lo fanno ancor più in maniera magistrale perché sono il prodotto di una fotografia analogica, come si deve dire con termini contemporanei, fatta di pellicola, esposimetro, sensibilità e grana di contrasto della stampa su carta. Una fotografia artigianale-artistica anch’essa sparita.
Non a caso il fotografo in anteprima della tua storia per immagini, usa una macchina su cavalletto e panno. Un fotografo anonimo di altri tempi che sei tu con il tuo cuore antico.
Quegli orrori, quelle scatolette “smart”, che tutti guardano servono anche a fare foto, in quantità smisurata, senza pensare, senza averne la capacità. Tutti fotografano, con immediatezza. Ma la grande quantità di immagini non racconta nulla, se non stupidi selfie inconsistenti e senza significato alcuno.
Grazie per questo tuo mirabile lavoro, Nicola. Se ci fosse un aggettivo supersuperlativo lo adopererei per qualificare il tuo impegno nel tempo, la passione per il tuo paese, i tuoi vecchi, la tua storia, le tue case.

Il tuo mondo antico. Il nostro mondo antico e pieno di significato che noi vorremmo, in un’improbabile utopia di un ritorno indietro, riemergesse armonizzato con il meglio della tecnologia soft, per un’umanità più giusta, meno crudele, più bella e tollerante.

venerdì 8 luglio 2016

Sognatori


Cose da sognatori

Svolgo, da due anni, nella Facoltà di Architettura della “Fedrico II” di Napoli, un corso di “Letteratura Disegnata”.
Espressione non mia, ovviamente, ma di Hugo Pratt che, non so bene quanti anni fa, quando qualcuno gli chiese che tipo di fumetto disegnasse, rispose, calcando un po’ la mano, che la sua non era opera di fumetto , bensì Letteratura disegnata.
Con questo Pratt ci tenne a sottolineare che il lavoro del disegnatore a fumetti non è quello del disegno e basta ma un vero e proprio impegno narrativo.
In questo senso il mio è un corso di Letteratura Disegnata perché vorrebbe insegnare agli allievi di architettura che hanno dimenticato, non per colpa loro, le regole elementari del disegno, l’uso della matita e l’osservazione dal vero della città e delle sue architetture, l’arte del disegno e, soprattutto, l’arte del raccontare per immagini.
Perché l’architettura è anche questo. Anzi, soprattutto questo. Con l’accentuare, in epoca moderna, soprattutto gli aspetti tecnologici e funzionali, si è perso di vista il gusto artistico dell’architettura, dell’ornato, dell’estetica.
Per meglio dire, le parole “ornato”, “estetica” e “arte” sono state allontanate dai discorsi di architettura per esserne definitivamente bandite come punti eversivi, pericolosi e fuorvianti.
Letteratura disegnata è racconto per immagini di luoghi, ambienti, personaggi, modi di sentire, pensieri, emozioni.
Dunque chi disegna per raccontare è, innanzitutto, un sognatore.
Anche questa definizione non è mia ma di Will Eisner, uno dei padri del fumetto moderno e soprattutto del Graphic Novel, del “romanzo grafico", del narrare per immagini.
Bellissima la definizione di Eisner di sognatore e di sogno. La riporto così come lui l'ha scritta perché non potrei far meglio:
“Nel migliore dei casi” scrive Eisner nell’introduzione a quella che è, a parere mio, la sua storia a fumetti più bella e complessa che abbia scritto, “la società tende a tollerare i propri sognatori. I sognatori viaggiano nella vita con un ritmo tutto loro. Prendono decisioni o sposano cause che spesso appaiono ingenue e confondono gli individui pragmatici, i quali – in ultima analisi – prosperano su occasioni nate dalla fantasia e dall’immaginazione”.
Ecco in sintesi il senso del mio lavoro. L’arte e il sogno al servizio del pensiero per sposare cause spesso ingenue (ritenute tali) e antipragmatiche: come la difesa degli animali, l’amore per la natura e gli alberi, la difesa del più piccolo alberello spontaneo dal cemento e dall’arroganza dei costruttori, la difesa dell’ambiente, la lotta all’inquinamento, la voglia di un mondo politico pulito e meno corrotto, il sogno di un’umanità serena e felice.
Ecco. Riportare questi temi onirici all’interno delle facoltà di architettura “moderne” e tecnologiche è un sogno.
Quello che io ho abbracciato.
Queste parole sono dirette a tutti gli allievi di questi due anni che hanno condiviso questi sogni, sono stati a sentire e osservare come nasce un “pupazziello”, come lo si fa muovere, come si disegnano le mani e le gambe, come si usa la tecnologia per rendere espressivi gli occhi e trasparenti le pupille.
E come tutto questo serva per rendere il mondo meno sporco, corrotto e più felice. Come se fossimo dei bambini, tornati a quello stadio di purezza che rende il mondo giusto.
E io non posso che ringraziarli della loro attenzione.