I botta-e-risposta di FB sono forse il posto
peggiore per affrontare discorsi complessi come quello che qui si profila.
In
genere sono accomodante, anche se, in alcuni momenti, sono portato a ragionare
per paradossi e provocazioni. Paradossi e provocazioni, a mio parere, sono indispensabili per muoversi nel pantano
dei luoghi comuni e delle cose che si ripetono più per inerzia che perché uno
ne sia convinto per averci fatto un ragionamento.
Così uno
di questi luoghi comuni è la fede smagliante nella repubblica che esce fuori
dalla rivoluzione francese e la fede, altrettanto smagliante, in Eleonora
Pimentel Fonseca e i suoi compagni del ’99 e della cosiddetta “rivoluzione
napoletana”.
In un post di FaceBook me ne
sono uscito, forde troppo sinteticamente e in fretta, con l’espressione “i ragazzotti del ’99” e le
“idee bislacche” che si portavano appresso. E Nino Russo, mio vecchio amico, mi ha ripreso,
ricordandomi di che cosa stiamo parlando, d’idee che venivano dalla rivoluzione
francese e di giovani che hanno perduto la vita per queste.
Fin qui
ha ragione lui. E mi sono, in prima istanza, prodigato ad ammettere
l’avventatezza della mia provocazione.
Anche io
sono, a parole, dalla parte dei “ragazzotti del ‘99”. Lo sono stato per una
vita.
Poi, con
lo studio, mi sono reso conto che le cose non stanno proprio così.
Mi sono
reso conto che, per esempio, l’ingresso del
generale Championet a Napoli, nonostante le idee “rivoluzionarie”, aveva tanto
il sapore di una vera e propria invasione. Che Gioacchino Murat era cognato di
Napoleone e che costui, figlio della rivoluzione, si era proclamato
nientedimeno che imperatore.
Ma
andiamo avanti. Le idee di “libertà, eguaglianza e fraternità” hanno portato,
durante lo svolgersi della rivoluzione francese, al più feroce ammazza-ammazza
che la storia ricordi, a un feroce uno contro l’altro che in genere ricorda, per
certi versi, la salita al potere di Stalin. Anche lui, in nome della libertà e
del popolo, ha fatto uccidere barbaramente Trotzschij e ha indotto poeti come
Majakowsky ed Esenin al suicidio.
E che i
“liberali” italiani hanno trovato, dopo l’unità, un Sud d’Italia zeppo di
braganti e malfattori che non avremmo ai supposto che esistessero. Salvo poi
rendersi conto che erano partigiani dei Borbone. E quanti ne erano, interi
pèaesei sterminati. Un solo nome tra tutti il sergente Romano. E che
nientedimeno Garibaldi, per mantenere l’ordine pubblico in Napoli si rivolse ai
camorristi, togliendoli di galera e investendoli di potere di poliziotti e
questori. Come se io pigliassi Reina dalla galera e lo facessi ministro
dell’interno.
C’è di
che fare una confusione incredibile.
E poi
che la nazione Italia, alla faccia di tutti quelli che sono morti per crearla,
a un certo punto non è più andata bene. Accade oggi. La Fiat, tanto per citare
qualcuno NON A CASO, che sull’emigrazione interna ha fondato il suo costrutto
economico e aziendale, sull’onda dell’Internazionalismo capitalista (leggi
globalizzazione) oggi è fuori dall’Italia. Noi tutti a pregare che lasciasse
qualcosa qui, ma in realtà testa dell’azienda è altrove e fabbriche e
manodopera sono altrove. E che non è più Fiat ma un miscuglio tra fiat e
crysler.
Come
dire che la più grande rivoluzione di superamento delle asfissie degli stati
nazionali l’ha fatta il capitale. E’ diventato internazionalista.
Ragazzi,
ma che succede? Ma qual è il rivolgimento al quale stiamo assistendo?
Nessun
rivolgimento, rispondo io, con il mio ragionare per paradossi. Nessun
rivolgimento.
Si
tratta sempre della stessa vecchia canzone. Che ci cantava Karl Marx. Ma oggi
Marx non si porta più. Nessuno lo cita, almeno quelli della mia generazione di
vecchi che da giovani lo tiravamo in ballo quattro volte ogni parola che
dicevamo. La canzone è che il profitto non sente ragioni. Va, dove le
condizioni lo fanno crescere e che tutto il resto, politica in primis, ma poi
cultura, poesia, giustizia, scuola, leggi, organizzazione dello stato, non è
altro che sovrastruttura. Inessenziale. Si può cambiare, gettare, sostituire.
Come una tappezzeria vecchia.
Che vuol
dire il vecchio Marx? Semplice. In soldoni dice: «Non fatevi prendere per i
fondelli. Il capitale è onnivoro per sua natura. Va, dove mangia, dove cresce.
Altrimenti muore. E non guarda in faccia a nessuno. La sua terra? Quella
dell’economia. Il profitto. Come per i romani Pecunia non olet, anzi, profuma. Il resto? Chiacchiere che servono
a volte da copertura. Lo stato nazionale è utile? E allora viva le idee di “libertà,
eguaglianza, fraternità”. Lo stato nazionale non è utile? E allora lo si getta.
Si diventa internazionalisti».
Ecco
perché sono idee “bislacche”. Perché non son vere. Perché sono solo propaganda,
copertura – e neanche tanto resistente – del vero motore del mondo.
Eccola
spiegata la questione oggi. Ed ecco perché i “ragazzotti del ‘99” piaccia o non
piaccia erano degli illusi. Perché hanno creduto a una “storiella” e ci hanno
rimesso, poveri loro, la vita. Loro ci fanno pena. Ma fa schifo la retorica che
tutti gli altri, a partire da Croce ci hanno ricamato sopra. Anche noi, se non
ci stiamo attenti, finiamo per aggregarci al gruppo di “cantori della
rivoluzione” pur sapendo che si tratta di una farsa.
Oggi lo
abbiamo capito che si tratta, come scrive Marx, di epifenomeni dell’economia.
Sovrastrutture, maschere, inganni, ideologie.
Una
rivoluzione la si fa e se ne approfitta. Non funziona? La si getta. Funziona?
La si adotta come ideologia, copertura. A che? All’interesse, alla plusvalenza,
alla pecunia, all’accumulazione, allo sfruttamento dell’uomo sull’uomo.
Una
sostanza delle cose che il vecchio Scrooge, straordinaria invenzione di
Dickensci ricorda immancabilmente.
Stiamo
aspettando i tre fantasmi del Natale che mettano un po’ di strizza nel culo del
grande capitale. Vuoi vedere che, come Scrooge, si penta?
Che la
smetta di sfruttare intensivamente uomini, animali e cose e dica «Basta,
ragazzi. Ma chi ce lo fa fare?».
Sarebbe
bello, eh?
Alla
fine tutto finisce come è iniziato.
Ci
sediamo in riva al mare. Guardiamo un po’ l’orizzonte. Giochiamo a immaginare
tterre lontane che si nascondono dietro la sua linea e come Robert Louis
Stevenson ci inventiamo, seduta stante, una splendida goletta per metterci al
largo, inseguire gabbiani, terre lontane, altri lidi, felici, baciati dal sole.
Voi ce
lo vedete John Philip Jacob Elkann seduto accanto a noi ad immaginare il
viaggio?
Io no.
Non ci riesco. Mi piacerebbe pensarlo. Mi piacerebbe pensare che, per una
volta, un pensiero meridiano gli passasse per la testa e lo costringesse a
sedersi e capire che cazzo ci fa sul mondo, su questo pianeta. Se ne vale la
pena. Se, magari, c’è qualche altra cosa da fare che accumulare denaro e
ricchezze.
Perché
poi, alla fine, dovrebbe chiedersi. Ma sono io a gestire il capitale? O è lui a
fottermi? A farmi credere potente. Ma io sono, poi, come tutti quanti gli
altri.
Anche
quello piccolo piccolo, l’ultimo bambino sporco, malnutrito, malato e
oltraggiato dell’ultima delle favelas del mondo?
Voi ci
credete che penserà così?
Io ci
credo molto poco.
Ma i
ragazzi del ’99, La Pimentel Fonseca con il suo martirio, la Sanfelice e il suo
sacrificio, tutti mi fanno una gran pena. Ma non mi ci soffermo più. Erano
degli illusi, li hanno ingannati. Dobbiamo cambiare pagina.
E
cominciamo da qui.