Mio padre era un grande falegname.
Stupendo era tutto ciò che costruiva. Ma il suo cavallo di battaglia era la
bara. Tanto che ben presto fece fallire tutti gli altri costruttori di bare
della città.
Lui avrebbe voluto che da grande
facessi anche io il falegname. Ma presi un’altra strada: il caso volle che a
soli sette anni assistessi alla deposizione di un morto in una delle nostre
bare. Scoprii che non la bara in sé mi affascinava, bensì la coppia morto-bara.
E capii subito – ero un ragazzino sveglio – che avrei fatto il becchino. Quella
era la mia vocazione.
Così, appena maggiorenne, ho aperto
un’agenzia di pompe funebri. Nonostante la viva disapprovazione di mio padre
che, forse anche per questo dispiacere, si è ammalato. E ci ha lasciato a soli
cinquant’anni.
Voglio spiegare le mie sensazioni quando
metto un morto nella bara. Perché non si creda che io sia un inguaribile pervertito,
tanto più che lo sarei stato, cosa ancora più grave, sin da ragazzino.
Ebbene, due durezze si confrontano e
si integrano: quella del legno stagionato della bara, quella del corpo del
morto ormai preda del rigor mortis.
Accomodare con garbo e sapienza la salma nella cassa mi fa sentire un bravo
cristiano, rispettoso dei trapassati come, o perfino ancor più che dei viventi.
E poi c’è anche una sinergia di
odori. Se tutti sanno e accettano la gradevolezza dell’odore del legno
stagionato - larice, ciliegio o altri – pochi o nessuno forse vorrà ammettere
che una salma ha un suo profumo delicato, che non va camuffato e mortificato
con fiori o deodoranti.
Mia madre sta dalla parte di mio
padre e, ora che lui ci ha lasciati, lei moltiplica i rimproveri, come se
fossero a nome di tutti e due. Non può fare a meno di protestare che fare il
falegname invece che il becchino sarebbe stato più dignitoso, che i becchini
sono sempre malvisti, e che i falegnami, inoltre, guadagnano anche di più.
Io difendo la mia scelta. Anche se so
che le mie parole sono singolari e non troveranno mai la sua approvazione: “Mamma
– le dico sfrontatamente – io voglio bene ai morti. Solo loro rispetto sempre e
comunque. I morti non pettegolano, non progettano e non realizzano il male, non
tradiscono, non deludono. Fra tanto chiasso che fanno i vivi con la bocca, i
morti, giudiziosi, tacciono. E il loro silenzio è d’oro.” Mia madre mi guarda
storto, nella bocca una smorfia di disgusto. Ma io concludo: “Quella loro
faccia immobile, distesa, serena mi dà pace e conforto, non vorrei mai smettere
di guardarla. E mi dispiace che a un certo punto, come è purtroppo inevitabile,
devo mettere il coperchio e avvitarlo.”
C’è sempre molto lavoro per me, per
fortuna.
Quando è arrivata la Crisi, poi, ho
incrementato molto il mio business con i suicidi, artigiani falliti, operai
licenziati. I vecchi poveri, morti in anticipo.
Per non parlare dell’ultima moda, il
femminicidio: anche nella mia città donne fatte fuori da ex fidanzati o ex
mariti o semplici conviventi. E mettiamoci pure il contributo di ubriachi e
drogati che falciano i pedoni perfino sulle strisce pedonali.
Infine una mano me la danno anche le
faide fra famiglie malavitose con i loro sbrigativi ammazzamenti e i tumori
dovuti ai rifiuti tossici che hanno sotterrato in discariche abusive.
La Crisi è finita, purtroppo. O
almeno molta gente ci crede. Tutti si attaccano alla vita, non si lasciano
andare. Se imprenditori, artigiani e operai non vogliono morire più come prima,
non li si può certo convincere. Se i maschi cominciano a rinunciare al femminicidio
(non va più di moda?); se le famiglie della camorra hanno siglato una lunga
tregua; se la medicina e la chirurgia si dilettano ad allungare a dismisura
l’esistenza e la malasanità perde colpi, chi ci va per sotto? Io, che faccio il
becchino e vivo della morte altrui.
I miei affari insomma da un po’ vanno
male. Scendo nel magazzino e guardo tutte quelle bare che mi ero preoccupato di
comprare in grande quantità, e che ora mi rimangono sconsolatamente vuote.
L’altro giorno, che non sopportavo
più di vederle tutte inutilizzate, e mi sentivo molto stanco, mi sono calato in
una. Anche per vedere se era comoda come sostiene quello che me le vende (si
chiama Filippo, da un po’ si è messo in proprio, ma la gavetta l’ha fatta nella
bottega di mio padre). Devo dire che proprio comoda non era. Ma poi ho
riflettuto che per un morto deve essere diverso. I morti non pretendono, non
sono schizzinosi.
Intanto ormai io e tutta la mia
famiglia ci siamo abituati a un certo tenore di vita: Nunziata, mia moglie,
vuole sempre rinnovare il guardaroba, soprattutto con capi dai colori luminosi
e allegri per compensare di essere maritata a un becchino; i ragazzi, Gaetano e
Annarella, mi credono un padre benestante, pretendono una paghetta consistente
e corrono appresso ad ogni novità tecnologica; io stesso, lo confesso, ho i
miei vizietti costosucci, non ultima Natascia, giovanissima aiutante ucraina.
Che fare, allora? Dovrei forse
suicidarmi? Ma figuriamoci, sono un ottimista, io. Non mi resta che aspettare che
riprendano quota le ragioni e le occasioni per uccidere, per suicidarsi, per morire.
Confido soprattutto nei nostri
politici, tanto insipienti e inaffidabili da riuscire a vanificare questa
timida ripresa e alimentare piuttosto una nuova devastante Crisi, sicura dispensatrice
di morti.
E allora ciò che tutti subirebbero
come una rinnovata sciagura, io potrei invece salutare come la manna dal cielo:
non più tristemente vuote le mie bare, non più pigramente vuote le mie
giornate, non più desolatamente vuote le mie tasche.