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ebook di ArchigraficA

martedì 18 dicembre 2012

Quando si dice Zoccola


Per Natale mi sono fatto un regalo che mi aspettavo ma molto tempo. Il delizioso (ed è dir poco) Alfabeto napoletano di Renato De Falco, dal quale attingo questa definizione che bene fa da introduzione all’ultimo smartphoneconto di Claudio Cajati e allo scontatissimo equivoco che lo conduce.

“Possibile che ci sia da dire qualcosa anche in ordine a tale disgustoso animale, frequentatore abituale di fogne e di luoghi malsani? Possibile, considerato che nel Sud – e solo nel Sud – l’appellativo di tale avversato roditore – dal nome scientifico di mus decumanus e “purista” (cu’ licenzia parlanno) di topo delle chiaviche o pantegana – contrassegna la titolare del mestiere più antico del mondo, differenziandosi da altre zone della Penisola che pure fanno ricorso a femmine di animali per definire la medesima prestatrice di opera (cagna, vacca, troia, scrofa e simili). E la motivazione – tutta sottile  e … meridionalistica – di una siffatta denominazione è da ravvisare nella circostanza che tali bestie si materializzano e si rendono visibili solo di notte, o al più col favore delle tenebre, analogamente a quanto (un tempo…) praticato dalle passeggiatrici peripatetiche…”












Quando si dice zoccola
Di Claudio Cajati


“Se te lo racconto, magari non ci credi... ieri sera mi piomba una zoccola in casa!”
“Accidenti, con tutti i gatti che hai... Quante volte te lo devo dire che gli dai da mangiare troppo?”
“Ma adesso, scusa, che c’entrano i miei gatti?”
“Embè, è chiaro: se li tenevi a stecchetto – come fanno i contadini, scarpe grosse e cervello fino – quella, la zoccola, mica si azzardava a entrarti in casa...”
“Scusami, ma proprio non capisco il nesso fra i gatti tenuti a stecchetto e la zoccola che mi è piovuta in casa...”
“Ma come, non capisci il nesso?! Quella, appena vedeva i gatti affamati, subito se la dava a gambe, non ti pare?”
“E invece nient’affatto: appena li ha visti, gli è andata incontro e ha cominciato a carezzare Velvet, il più bello e socievole...”
“A carezzarlo?! Ma avevi bevuto forte? Ecco che succede a essere astemi...”
“Appunto, sono astemio. E non bevo mai nemmeno un goccio. Guarda, se la smetti di dire sciocchezze, ti racconto tutto, con calma...”
“Confesso che ascoltare non è il mio forte, ma lo farò. Mi hai fatto venire una curiosità... Vai, racconta.”
“Allora, erano circa le diciotto, stavo in cucina e, come sono solito – tu sai che sono un tipo abitudinario – preparavo la cena...”
“Non la stai prendendo un po’ troppo alla larga?”
“Stai a sentire, e non mi mettere fretta. Dunque, preparavo la cena, solo un pasto frugale e salutare, farro e ricotta, una delizia, tu sai che sono un salutista vegetariano, e anche economo per necessità...”
“Senti, Arturo, ci conosciamo da ragazzi, da una ventina d’anni: come sei tu, lo so a memoria. E allora, stringi, che ho sì curiosità di sapere di questa zoccola, ma ho anche da fare, io... Intesi?”
“E va bene, per farti contento, stringerò. Stringerò un poco. Solo un poco, però: i racconti devono avere un loro ritmo, un loro respiro, le giuste pause, anche.”
“Vai, sbrigati.”
“Dunque, stavo cuocendo il farro nella pentola a pressione – così risparmio sul gas, e viene anche più saporito – ma tenevo d’occhio il computer portatile... erano ore che aspettavo una mail, una mail importante...”
“Vuoi dire che avevi rimorchiato finalmente una ragazza? Ah, marpione, non mi dire!”
“No, lo sai bene, visto che sostieni di sapere a memoria come sono io: io non sono il tipo che rimorchia ragazze...”
“Beh, scusa allora. Ma speravo che...”
“No, se stai a sentire invece di interrompermi... Avevo contattato una Agenzia per Single, la “Partner ad Hoc”, che va per la maggiore. Esperienza serietà e discrezione. Solo nell’ultimo anno, pensa, ha fatto incontrare più di ventimila coppie!”
“Non mi dire che ti sei ridotto a cercare una ragazza attraverso un’agenzia!”
“Ebbene sì. Tu lo sai quanto sono timido e... diciamolo pure, imbranato: faccio o dico sempre qualcosa di sbagliato, mi vado a cercare ragazze inadatte a me e regolarmente ogni volta ci rimango male... Insomma ho bisogno di una guida, una guida professionale...”
“A me pare che ti stai buttando un po’ troppo giù. Comunque, vuoi stringere, accidenti? Vuoi arrivare a questa zoccola che ti è piovuta in casa?”
“Ebbene, davo un’occhiata all’orologio per non far scuocere il farro e un’occhiata al computer con la speranza che comparisse la mail di risposta della “Partner ad Hoc”. Io avevo inviato loro tutti i dati richiesti, tutte le mie caratteristiche e il tipo di donna desiderata, eccetera eccetera...”
“Ecco, bravo, eccetera eccetera, e vai avanti. Vai avanti, per dio!”
“Insomma, per guardare ogni pochi secondi sul computer, il farro mi si è scotto. E intanto la mail non è arrivata. Invece, hanno bussato alla porta...”
“Ed era la zoccola... intesa come femmina. Ho indovinato?”
“Senti, siamo amici e l’amicizia consente la franchezza. Allora ti devo fare una domanda...”
“Ma questo adesso che c’entra?”
“La domanda è: tu, quando fai l’amore, soffri di eiaculatio praecox?”
“A parte il fatto che non ne soffro per niente, ma che c’entra con il tuo racconto? Ebbene, anche io ti sono franco: mi stai cominciando proprio a irritare!”
“Non irritarti: ti chiedo se soffri di eiaculatio praecox perché chi ce l’ha nell’atto sessuale, ce l’ha anche nel parlare...”
“Oggi proprio non ti capisco. Ma dove vuoi andare a parare?”
“È che mi interrompi continuamente, non sai stare ad ascoltare in silenzio: hai la eiaculatio precox dell’interruzione verbale...”
“Senti, questa è proprio tirata per i capelli... vabbè che sei scrittore, ma c’è un limite...”
“Insomma, per riprendere il filo, hanno bussato alla porta. Sono andato ad aprire, seguito dai miei gatti... loro si credono un poco di essere cani, e che quindi devono difendere me e la casa dagli estranei...”
“Uffa, continui a tergiversare. Vai al sodo. Sono curioso di sapere, ma ho anche da fare, te l’ho detto!”
“Apro la porta e ti vedo una donna, o meglio una ragazza, alta, formosa, con gonna corta ma corta corta, calze a rete e tacchi vertiginosi, petto ubertoso ben in vetrina... Mi viene subito di pensare: E questa da dove è uscita, e cosa vuole mai da me?”
“L’avrai fatta entrare, con degna accoglienza, spero...”
“Non ho avuto tempo di invitarla ad entrare: è entrata lei direttamente, con passo deciso, sorridendo accattivante e allusiva... Io allora le faccio, quasi severo ma balbettante: “Scusi, lei chi è e cosa vuole?” E quella subito, solenne, dice: “Lei ha contattato la nostra Agenzia, la “Partner ad Hoc”. Io sono la Direttrice, Amanda Amoruso...” Al che io un poco mi confondo e dico: “Sono onorato della sua visita... ma io credevo di dover ricevere soltanto una mail di risposta...” E lei, suadente, fa: “Vede, una ragazza che risponda propriamente alla sua richiesta non l’avevamo. Allora ho pensato che forse potevo, per quanto sembri anomalo, propormi io stessa... Che ne dice?” E ha sporto il seno in fuori, che quasi sembrava sul punto di sgusciare fuori dall’ampia scollatura.
“E allora tu che hai fatto? Ti sei lanciato, spero?”
“No, io ho obiettato: “Per carità, lei ha molte doti... però io cercavo una ragazza diciamo tranquilla, non troppo vistosa, con cui fidanzarmi e, se ci trovavamo bene insieme, sposarci pure...” Allora lei ha piegato le sue labbra tumide, rossetto rosso fuoco, in una smorfia beffarda e provocante, e ha sussurrato, un sussurro caldo: “Anni di esperienza alla guida della “Partner ad hoc” mi hanno insegnato a conoscere e riconoscere che cosa vogliono i maschi che si rivolgono a noi... Lei afferma di volere incontrare una ragazza tranquilla, non vistosa, con cui fidanzarsi e magari proprio sposarsi, ma, dall’esame dei dati da lei fornitici, il nostro team di psicologi ha dedotto, in maniera inoppugnabile, che lei vuole tutt’altro, qualcosa che non osa confessare nemmeno a se stesso...”
“Ma insomma questa che voleva?”
“Eh, che voleva? Non mi ha dato neanche il tempo di contestare quello che aveva detto, è avanzata spavalda verso di me, ha carezzato con sfrontata sensualità Velvet che le era andato incontro, poi mi ha dato una spinta in petto, mi ha raggiunto sul pavimento, mi ha aperto la cerniera dei pantaloni, in un istante me l’ha tirato fuori e... mi metto quasi vergogna a dirlo, tu sai che tipo sono, insomma non sono riuscito a oppormi, che me lo pompasse e succhiasse tutto, fino all’ultimo...”
“E tu tieni questa fortuna, e pare pure che ti lagni: una che ti piomba in casa e gratis...”
“No, no, un momento: quale gratis?! Quella alla fine, sfoderando un altro sorriso dei suoi, voleva cinquanta. Io, che sono economo, tu lo sai, ho rilanciato a trenta. Dopo un po’ di tira e molla ci siamo accordati a metà strada, quaranta euro. Era un piccolo salasso per me, non sono mica benestante io. Però era stata proprio brava, non c’è che dire...”
“Quando si dice zoccola!”

sabato 15 dicembre 2012

Mozart e il mistero dell'anello

Un nuovo smartphoneconto di Giacomo Ricci.

Mozart fu a Napoli nel mese di maggio del 1770. La sua fu una bella avventura. Fu affascinato dall'Italia ma soprattutto dalla capitale del Regno. Napoli era vivace artisticamente e intellettualmente ed apprezzò molto l'arte del giovane genio della musica, accompagnato dal padre Leopold.
Suonò in molte occasioni e il pubblico napoletano credette di vedere, in un anello che il ragazzo aveva al dito mentre suonava, l'origine del miracolo della sua musica e della sua stupefacente eccellenza di virtuoso del piano.
La storia è, ovviamente, di pura invenzione. Ma mi sarebbe piaciuto se fosse andato come ho scritto. Avremmo avuto anche noi il nostro magnifico Mozart partenopeo. E non ci avrebbe fatto male. La nostra splendida città ha bisogno di pezze d'appoggio per dimostrare a tutto il resto dell'Italia e del mondo la sua faccia migliore e il suo grandissimo, indubitabile valore. Per non dire della bellezza.
G.R.




Mozart e il mistero dell'anello
di Giacomo Ricci


Gennarino c’era quasi riuscito. Si era arrampicato per il cornicione. Quella era la parte più facile. Poi doveva salire per la grondaia. Lì era più difficile. Ma leggero com’era, secco come una gomena del Mandracchio, non ci avrebbe messo molto.
Uno scazzuoppolo Gennarino, magro magro, tutt’ossa, come diceva sua nonna.
La nonna di Gennarino era vecchissima. Abitava in un basso, di là dalla vecchia cinta delle mura aragonesi che circondava la città vecchia, verso lo Spedale degli Incurabili, un po’ più in sopra di Porta San Gennaro. 
Quasi gli dispiaceva di portare a termine quello che si era avviato a fare.
Ma per quell’anello, un altro carlino non glielo levava nessuno.
Il marchese Costa di Tarsia glielo aveva promesso.
«Arrubbami l’aniello e io te ne dò altri due» gli aveva detto passandogli un carlino nella mano.
Lui l’aveva stretta forte, si era infilata la moneta in tasca e aveva fatto cenno di sì col capo.
Ma poi perché ‘o marchese voleva l’anello?
Sua nonna glielo aveva spiegato con un sorriso furbo.
«‘O guaglione che vene da fuori, dall’Austria,  sona comme a nu padreterno. Tutta Napule sta arrevutata. Nun se po’ credere. Tutti dicono che è per via dell’aniello. Che è affatturato. Aggio sentuto e ricere che molta gente se lo volesse arrubbà. Forse ‘o marchese lo va cercando per diventare lui un pianista bravo comme a questo  guaglione…».
Fece un ultimo sforzo. Il terrazzino degli ospiti stranieri era quasi raggiunto. Da lì sarebbe potuto scendere per la pennata del gaito del piano di sotto e di lì, lungo il cornicione, arrivare al balcone della camera dove dormiva il ragazzo. Era sempre aperto per via del fatto che i due, padre e figlio sentivano sempre caldo. L’aria di Napoli era mite, niente a che vedere con quella gelata di Salisburgo.
Come un gatto saltò la ferriata della piccola loggia e poi  rimbalzò sul cornicione.
“Aggio fatto comme fa ‘a rilla” pensò Gennarino.
Appiattito contro l’intonaco screpolato, sporse la testa dal bordo del muro.
La cupola di San Giovanni a Carbonara brillava con le sue maioliche. Sembrava si potesse toccare con le mani.
Era in alto. Un piede in fallo e addio Gennarino.
“Se se, e mo’ cado io” pensò in fretta.
E per sfidare la sorte si avviò sul cornicione.
Pochi passi e sarebbe saltato nel balconcino.
Aveva sentito le voci degli ospiti di donna Concettina nell’altra stanza.
Donna Concettina, per tirare a campare, fittava l’appartamentino ai visitatori stranieri.
Il ragazzo stava suonando.
“E’ proprio nu guaglione”,  pensò. Proprio un ragazzino.
Un ragazzino che suonava in maniera incredibile. Ora che lo ascoltava dava ragione a tutte le chiacchiere della gente.
Era un miracolo, avevano detto.
Una fattura, aveva detto sua nonna.
Poi la storia dell’anello aveva preso piede tra la popolazione.
Ne parlavano in tutti i salotti.
Lui non ne capiva di musica. Ma quello che sentiva gli piaceva.
Basta. Non si curò anche se le note della spinetta gli entravano in testa come uccelli leggeri. I suoni si rincorrevano velocissimi, come una ruota che ti prendeva e ti metteva  in movimento, dava velocità ai tuoi pensieri, li faceva girare come una trottola tirata con abilità dalla sua funicella.
Metteva tanta allegria quella musica.
Veloce, frizzante come l’acqua fresca della fontana del Cavone. Più giù verso la porta d’Alba, vicino al Mercatello.
Entrò silenzioso come un gatto.
Eccolo l’anello. Proprio sul comodino. Vicino al letto. Fece per afferrarlo.
Dei passi. “O cazzo!” pensò.
Qualcuno era diretto proprio in quella camera.
S’infilò svelto sotto il letto.
Proprio in tempo. Rimase immobile senza tirare respiro.
Era il padre del ragazzo. Ne vide le scarpe lucide con la fibbia dorata. I suoi passi leggeri e veloci si fermarono davanti allo specchio dell’armadio.
La musica intanto invadeva tutta la casa.
L’uomo parlò. Chiamava il ragazzo nell’altra stanza.
« Das Kleid Sie tragen ist rot wie Feuer» disse.
Non capì che diceva. Parlava un’altra lingua. Ma gli chiedeva qualcosa.
«Oh, nicht tragen diesen Mist! Nein, nein!» urlò il ragazzo dall’altra stanza terminando con un grido acuto.
Ma non smise di suonare.
L’uomo rise a pieno petto.
Gennarino vide i suoi piedi alzarsi sulle punte. Girarsi rapidi come in una piroetta.
Poi uscì.
Lo sentì allontanarsi nel corridoio.
Lestissimo uscì da sotto il letto. Prese l’anello dal comodino e fuggì via da dove era venuto.
Sarebbe sceso per l’altra scaletta che menava al terrazzo di Donna Filina.
Troppo rischioso scendere per la grondaia.
Donna Filina lo conosceva. Avrebbe pensato che era salito sul tetto per dare da mangiare ai gatti.
O almeno glielo avrebbe fatto credere.

S’è radunata una gran folla nella sala del conservatorio della Pietà dei Turchini. Nella folla anche il marchese di Tarsia che stringe nelle mani l’anello. Tra poco avrà  la prova che la musica “indiavolata” del piccolo Mozart è opera di una fattura. E quell’anello farà la sua fortuna.
Già immagina le corti europee inchinarsi al suo talento. Il marchese Costa di Tarsia sarà il nuovo genio della musica europea.
Da quando l’ha stretto nelle sue mani  sente nell’anima un’energia nuova.
Gennarino glie l’ha portato pochi minuti prima.

Era stato assai in ansia ad aspettare fuori della chiesa. Del ragazzino neanche l’ombra.
“Il piccolo delinquente s’è fottuto lu carlino e m’ha lasciato come un fesso. Mai accattarsi la jatta nel sacco. Non mi voglio mai imparare” aveva pensato il marchese mentre il pubblico entrava nella chiesa. Di lì a poco il concerto sarebbe iniziato.
E  niente. Di Gennarino neanche l’ombra.
«Ah, maledetto lazzarone!» imprecò a denti stretti il marchese.
«Marchese, ma che fate? Non entrate? Io il posto ve l’ho tenuto finora. Ma c’è folla e non so fino a quando ci riesco. Va a fernì che se lo fottono. Sapete come si dice: Tarde veniste e ‘o pizzo perdiste».
Era la voce del Conte Lofico di Toledo dietro di lui. L’amico lo invitava a entrare per non perdere la sedia di prima fila che a fatica si erano procurati.
«Vengo, vengo, tenetemi il posto. Tra un minuto soltanto» rispose il marchese con i nervi a fior di pelle.
Si sentì tirare per la redingote. Eccolo lì il mascalzone. Con un grande sorriso stampato sul viso.
«Pezzo di fetente. E ancora ti devo aspettare?».
Gennarino gli passò l’anello con una strizzata d’occhio. E lui gli diede i due carlini borbottando, ma felice per avere quell’oggetto tanto desiderato.

«Songo proprio nu’ scemo, non c’è che dicere» fece il marchese, fuori dalla chiesa.
Il concerto era finito.
Tutti se n’erano andati ormai.
Il giovane Mozart aveva spopolato. Se possibile aveva suonato meglio di tutte le altre volte. E manco a dirlo, senza l’anello al dito.
Era stato un trionfo.
Nessuno aveva mai visto scorrere le dita con tanta velocità sulla spinetta. Una meraviglia della natura. Un miracolo.
Alla fine tutto il pubblico si era levato in piedi e aveva applaudito a spellarsi le mani. Più di un quarto d’ora di ovazioni. E poi il bis concesso dal piccolo fenomeno.
Il ragazzino nel suo abito di amoerro rosa, “ ‘o colore ro’ fuoco” come dicevano a Napoli era apparso come una visione, una diretta emanazione del cielo.
Folgorante, geniale, sublime, irraggiungibile.
Ma quale anello! Genio, genio sublime, così avevano decretato tutti. 
Il marchese Costa si rigirava tra le mani quell’anelluccio. E non era nemmeno prezioso. Un cerchietto semplice di vile metallo. Un poco di stagno dorato. Oro pimmiento. E ci aveva rimesso tre carlini.
“Songo proprio nu’ strunzo, nu’ vozzacchione, nun c’è che fa” pensò afflitto.
«Che d’è signor marchese, state ‘ncazzato?». La voce di Gennarino gli risuonò nelle orecchie.
A vederlo il marchese ebbe un moto di stizza. Poi ci ripensò. E che colpa aveva il ragazzino? Era, a suo modo, ragionevole il marchese Costa di Tarsia.
Guardò quel giovane lazzarone che gli fissava i grandi occhi neri intelligenti sul viso.
«Tiè, pigliatillo. Nun me serve cchiù» e gli lanciò l’umile cerchietto di ferro che rotolò sui basoli, infilandosi in un buco.  
Gennarino si precipitò a prenderlo e scappò via. Hai visto mai che il marchese ci ripensava, se lo riprendeva assieme ai tre carlini che gli tintinnavano in tasca?

La carrozza era diretta verso Bologna, loro prossima tappa. Padre e figlio erano attesi per altri impegni, altri compensi e altri applausi da ricevere.
L’Italia era un paese bellissimo e accogliente.
«E allora? Che te ne pare?» chiese Leopold a suo figlio.
«Napoli è una città straordinaria. E la gente molto furba».
«Oh sì, puoi dirlo forte. Meno male…».
«E sì. Meno male, papà. Io, De Mozartini sono un gran furbo. Ma più furbo è il mio papà. Hai fatto bene a far  ricucire l’anello vero nel vestito di amoerro e mettere la copia sul comodino».
«Fidarsi è bene ma non fidarsi è meglio. Me l’avevano detto che i laceroni di Napoli fanno di tutto per sopravvivere. E hanno pure la protezione del re. Ho avuto intuito. Il tuo vecchio padre è un furbo. Me lo sentivo che ce lo rubavano sotto il naso. Dev’essere entrato dal balcone e da lì è poi scappato. Ce l’ha fatta sotto gli occhi.  Abile e astuto, non c’è che dire».
«Ma tu sei stato più furbo. E l’anello è ancora nelle nostre mani».

Quando il marchese si allontanò nella sua carrozza, Gennarino non poté resistere .
Entrò in chiesa e vide, a fianco all’altare maggiore la bella spinetta sulla quale aveva suonato il grande ragazzino musicista. Luccicava alla luce delle candele.
Si mise l’anello. Gli andava perfettamente. Sembrava fatto apposta per il suo anulare.
Si sedette. Senza rendersi conto di quello che faceva. Come se qualcuno glielo dicesse in un orecchio.
C’era ancora uno spartito sul leggio.
E cominciò a suonare. Le mani partirono esperte, scatenate, decise, robuste,infallibili,  in un forsennato, diabolico salterello.
Fra Vincenzo che era entrato a richiudere le porte della chiesa, venne richiamato dal suono impetuoso della musica nella chiesa vuota. Ascoltò senza parole, impietrito per alcuni minuti. La musica girava nell’aria e le note turbinavano come uno strummolo lanciato in folle corsa.
Riuscivi quasi a vederle mentre si arrampicavano verso la sommità della cupola della chiesa, impazzite giravano vorticosamente lungo il perimetro circolare e si tuffavano giù, a capofitto verso il pavimento che, come uno specchio, le scagliava contro la grande volta della navata e si andavano a perdere nel fondo verso l’organo e il portale d’ingresso, uscendo  prepotenti fuori nella strada di Medina.
Corse in sagrestia a chiamare il padre superiore.
C’era un ragazzino all'altare che suonava in maniera straordinaria. Un genio. Un miracolo del cielo sceso in terra. Il fraticello tremava per l'emozione mentre tirava per mano il suo vecchio padre superiore, impaziente che ascoltasse.
Avrebbero dovuto accoglierlo sicuramente nel conservatorio della comunità dei piccoli Turchini. Sarebbe stata per loro una vera fortuna. Da fare meraviglia anche al giovanissimo Mozart.



Giacomo Ricci  è nato a Napoli. Architetto e professore, docente alla Facoltà di Architettura di Napoli, animalista e ambientalista, ha pubblicato due romanzi gialli Pietre di Fuoco e Lazzari, che hanno per protagonista il prof. Giuliano De Luca, il romanzo fantastico Il Sogno di Jeronimus Bauknecht. 
Ha in corso di pubblicazione un romanzo ambientato a Napoli nel 1611 dal titolo La luce nel labirinto, uno speziale nella Napoli del primo Seicento, che ha per protagonista lo scienziato Ferrante Imperato e l’eclettico, geniale e  leonardesco Giovanbattista Della Porta.
Si occupa di grafica e illustrazioni fantastiche. Le sue opere sono apparse in numerose mostre.