di Giacomo Ricci
Inizio questa mia presentazione de Il
delitto della via Chiatamone di Matilde Serao un po’ fuori fase.
Mi sento, come si dice a Napoli, un po’ nzallanuto.
Uso un termine napoletano
perché la Serao, diciamolo subito, è una grande rappresentante della realtà
napoletana non soltanto sotto il profilo letterario e culturale, ma anche e
soprattutto perché di questa città comprese l’anima e ne condivise le sofferenze. Ne colse lo spirito e lo fece
suo. Non soltanto nei suoi lavori più “alti”, ma anche in quelli, per così
dire, di “mestiere”, proprio come questo
Delitto che qui vogliamo introdurre.
Perché, bisogna dirlo subito, è opera di mestiere, diretta a un
pubblico ben preciso, di cui solletica il gusto salottiero e un po’
vojeristico, piccolo-medio borghese, che ama lo spettacolo dello struggimento
dell’anima purché – anzi soprattutto – non lo riguardi.
No, la mia non è demenza senile (non ancora, spero).
E’ che, come si dice a Napoli, mi è pruruto il mazzo di mettere in
pulito per la pubblicazione sotto forma di ebook, un lavoro della Serao un po’ dimenticato che
si trova con difficoltà sia in libreria (l’ultima riedizione è di Sonzogno e
risale al 1972) sia sul web e che è una specie di singolarità della scrittrice
napoletana, anche se ampiamente nel genere di cui ora ho detto.
Sono riuscito a scaricarlo da un portale mezzo pirata nel quale non so
come sono finito.
Ma la riedizione è opera lecita – e mio parere necessaria – visto che i diritti d’autore sono scaduti da
anni. Ed è a mio parere assai interessante sotto il profilo letterario, per
cogliere un’epoca e i suoi gusti di consumo, per così dire.
Era un po’ di tempo che lo cercavo. Perché, assieme a La mano
tagliata della stessa Serao e Il mio cadavere di Francesco
Mastriani (vedi che titoli d’allegria!) sono i primi “gialli” non solo
napoletani ma italiani. O almeno compaiono a pieno titolo in quello sparuto
gruppetto di opere letterarie che seguono la moda d’oltreoceano inaugurata dal
maestro Edgar Allan Poe e che qui vede tra i primi proprio Mastriani e De
Marchi con il suo Cappello del prete.
Diciamo subito che non si tratta, ovviamente, di una delle opere
migliori della Serao. La migliore per me resta, per la passione politica
(ah, quanto avrebbero i nostri uomini “politici” da imparare da questa donna con
i piedi nell’Ottocento e la testa verso il futuro, il Novecento e ben oltre, con
grinta e onestà da vendere, dialettica e forza critica) il Ventre di Napoli.
Un lavoro insuperabile, un’arringa
accorata e sentita, dove l’autrice a mani piene e senza alcun riguardo
manda affanculo il ministro De Pretis dicendogli, a muso duro, che il Risanamento è una boiata e una presa
per i fondelli del disgraziatissimo popolo napoletano. E che ben altro sarebbe
necessario per metter fine a miseria e disgrazie come il colera e la povertà.
Nient’altro che una speculazione bella e buona, questo sarebbe, secondo la sua
(e anche nostra) opinione, il “risanamento”
che nulla ha risanato, semmai aggravato la situazione urbanistica complessiva di Napoli, con la
realizzazione di uno sventramento sconsiderato, urbanisticamente discutibile, schifoso
sotto il profilo dell’architettura e del buon gusto.
Di certo, oggi lo sappiamo, ha nuociuto alla forma della città con un’edilizia vergognosa, falsa, che sembra fatta di cartapesta, (quelle cariatidi dei cosiddetti “Quattro Palazzi” che vergogna da carro piedigrottesco!) sgraziata e bassamente speculativa. Ed è anche, la Serao, straordinaria per la tenerezza infinita che ha per i derelitti ne Il paese di cuccagna, quelle figure meschinelle e pietose di sartine e signorinelle che, nella miseria più nera, sperano nel lotto e nella vincita.
Non vi ricorda qualcosa di oggi, con l’imperversare di lotterie on-line e televisive che raccomandano, al colmo dell’insopportabile ipocrisia, “di giocare responsabilmente”? Verrebbe veramente voglia di mandarli anche noi affanculo e di indagare chi ci sia dietro, a organizzare il tutto, i suoi legami con quali ambienti e quali finanziamenti. Ma di sbattergli sul viso Il giocatore di Dostoewsji e tutta la miseria, l’abbrutimento del gioco, vizio, dipendenza, droga di cui l’autore parla in maniera essenziale e violenta è gusto che non voglio perdere.
E leggetevelo prima di proporre lotterie, rischio e "avventura" ricorrendo anche a personaggi dello sport, leggetevelo e imparate da chi il vizio del gioco l'ha sofferto di prima persona e l'ha vissuto come abbrutimento, droga! Altro che giocare "responsabilmente". Non provate vergogna nel pronunciare parole che mascherano il bieco profitto? E nessuno di noi si leva per smerdare come si conviene simile gente?
Di certo, oggi lo sappiamo, ha nuociuto alla forma della città con un’edilizia vergognosa, falsa, che sembra fatta di cartapesta, (quelle cariatidi dei cosiddetti “Quattro Palazzi” che vergogna da carro piedigrottesco!) sgraziata e bassamente speculativa. Ed è anche, la Serao, straordinaria per la tenerezza infinita che ha per i derelitti ne Il paese di cuccagna, quelle figure meschinelle e pietose di sartine e signorinelle che, nella miseria più nera, sperano nel lotto e nella vincita.
Non vi ricorda qualcosa di oggi, con l’imperversare di lotterie on-line e televisive che raccomandano, al colmo dell’insopportabile ipocrisia, “di giocare responsabilmente”? Verrebbe veramente voglia di mandarli anche noi affanculo e di indagare chi ci sia dietro, a organizzare il tutto, i suoi legami con quali ambienti e quali finanziamenti. Ma di sbattergli sul viso Il giocatore di Dostoewsji e tutta la miseria, l’abbrutimento del gioco, vizio, dipendenza, droga di cui l’autore parla in maniera essenziale e violenta è gusto che non voglio perdere.
E leggetevelo prima di proporre lotterie, rischio e "avventura" ricorrendo anche a personaggi dello sport, leggetevelo e imparate da chi il vizio del gioco l'ha sofferto di prima persona e l'ha vissuto come abbrutimento, droga! Altro che giocare "responsabilmente". Non provate vergogna nel pronunciare parole che mascherano il bieco profitto? E nessuno di noi si leva per smerdare come si conviene simile gente?
Tutto torna e tutto è sempre lo stesso, quando si parla di furbi e di
sfruttamento dell’abbrutimento popolare.
E ti chiedi che fine abbiano fatto gli intellettuali in questa Napoli
tormentata e violenta, da sempre. Dove stanno? Che fanno? In quale salotto si sono rintanati? L'invettiva della Ortese contro gli intellettuali della Napoli degli anni Cinquanta torna utile, attualissima.
A quale bandiera vi siete votati intellettuali, scrittori, professori? Dove siete? Dove sono le vostre parole, le vostre riflessioni? Dov'è il vostro impegno? Possibile che una giornalista di un secolo fa abbia più grinta e fervore di voi? Che sia più attuale della vostra asettica contemporaneità?
Poco cambia qualche avanzamento tecnologico sul piano dei reali motori che muovono la nostra disgraziatissima storia occidentale, basata da sempre sullo sfruttamento intensivo e spietato dei deboli, lo stesso cinismo, la stessa protervia, lo stesso stupido, cieco esibizionismo teatrale di tanti anni fa. La Napoli del vicereame come quella oggi “democratica” dell’Italia contemporanea, dei misteri che non si spiegano, della mafia, della politica corrotta, dell’assurdo elevato a sistema, delle cricche, dei nepotismi violenti e strafottenti, dell’arroganza, della stupidità ai posti di governo.
A quale bandiera vi siete votati intellettuali, scrittori, professori? Dove siete? Dove sono le vostre parole, le vostre riflessioni? Dov'è il vostro impegno? Possibile che una giornalista di un secolo fa abbia più grinta e fervore di voi? Che sia più attuale della vostra asettica contemporaneità?
Poco cambia qualche avanzamento tecnologico sul piano dei reali motori che muovono la nostra disgraziatissima storia occidentale, basata da sempre sullo sfruttamento intensivo e spietato dei deboli, lo stesso cinismo, la stessa protervia, lo stesso stupido, cieco esibizionismo teatrale di tanti anni fa. La Napoli del vicereame come quella oggi “democratica” dell’Italia contemporanea, dei misteri che non si spiegano, della mafia, della politica corrotta, dell’assurdo elevato a sistema, delle cricche, dei nepotismi violenti e strafottenti, dell’arroganza, della stupidità ai posti di governo.
Ma questi argomenti ci porterebbero troppo lontano da quello di cui vi
voglio parlare.
Il libro di cui qui parliamo è un giallo, a stretto rigore, come, del
resto, recita anche lo stesso titolo.
Ma andiamo all’inizio della storia.
Un tram cammina per la via Chiatamone. Dentro ci sono poche persone,
una ragazza bella e affranta, pallida, turbata, dalle lunghe trecce bionde, la
pelle candida ma emaciata, consunta da un non so quale interiore tormento, un
giovane marinaro che se la mangia con gli occhi e l’ama a prima vista, una
vecchia megera che subito dà l’impressione di tramare qualcosa di losco, il
conducente del tram, il fattorino.
La ragazza è povera. Lo scopriamo subito perché non ha i soldi per il
biglietto di prima classe. Il fattorino, in maniera sgarbata, la spinge verso
la seconda classe. Il marinaro si offre per la differenza del biglietto.
Lei è smarrita, balbetta. Rifiuta. E mentre è lì tra la vergogna del
denaro che le manca e gli occhi trepidi del giovanotto che vuole aiutarla a
tutti i costi, si accascia, immota, colpita, morente. Che le è capitato? E’
svenuta? S’è sentita male?
No. Le hanno sparato. Il corpetto le si bagna di sangue.
Chi è stato? Da dove? Come? E l’arma? La pistola dov’è finita?
«S’è uccisa» dice il fattorino».
«E l’arma dov’è?» chiede il ragazzo spaventatissimo, vedendosela quasi
morta sotto gli occhi.
«Bisogna portarla all’ospedale! Ci muore qui subito».
«La polizia. Dobbiamo avvertire la polizia».
«Oh, povero me, proprio sul mio mezzo doveva capitare?» si lamenta il
conducente del tram.
Questo l’incipit, direi straordinario, de Il delitto della via Chiatamone.
Perché è un inizio a effetto, architettato a dovere, che ti prende. Che è tra i migliori
incipit per un giallo. Di alto mestiere, non c’è che dire. C’è già tutto il contenuto della storia. Il
lettore intuisce gli ingredienti della narrazione: la povera sventurata (un
classico all’epoca, di sicura attrattiva sul pubblico), l’amante rifiutato, il
mistero, l’assassino nell’ombra. Perfido. Chi può mai volere la morte di una
giovane così bella, così tenera?
E poi il tram. Il delitto quasi perfetto e impensabile. Quasi un
classico, come quello della “camera chiusa”. La situazione impossibile. Le
hanno sparato da fuori. E come hanno fatto a centrarla?
Chi ha quest’abilità? Un delinquente di mestiere, di certo.
Il lettore, come si dice, è catturato. Non può sottrarsi. Deve leggere. Vedere che cosa succederà. Un
vero è proprio cliff ending, come
dice la Läckberg, giallista internazionale affermata nel suo manualetto di scrittura dei noir. Che prende il lettore e lo appende a una cima. Dalla quale si
deve muovere, deve andare avanti se vuole evitare il vuoto della sospensione in
cui è stato gettato dall’abilità del narratore.
Un incipit, nel suo complesso, che Patrizia Highsmith, ad esempio, approverebbe senz’altro, con la sua tesi di
fondo che il lettore te lo catturi nella storia nei primi dieci righi.
Anche l’atmosfera c’è tutta visto che la storia inizia così:
“Più profonda e più malaugurata di tutte
le giornate di quel perfido e malaugurato autunno 188... era stata quella del 15
novembre, per Napoli. Scrosci di gelida pioggia cadevano, a intervalli, dalle
burrascose nuvole nere; quando cessava
di piovere, si levava un vento di tempesta, a
turbini; l’aria era oscura, il lastrico fangoso; per le vie centrali vi era un po’ di movimento, ma le
vie lontane dal centro erano deserte; un
senso di oppressione dappertutto.”
Ci cadiamo dentro senza accorgercene, vittime di uno scaltro mestiere
di scrittrice, d’intelletto fino che sa scegliere le sue parole a effetto e sa
costruire, in tre righi, l’atmosfera “maledetta” che segna questa storia.
E scopri inoltre che la Napoli nera, a tinte fosche e sanguigne, di morti ammazzati e anime perdute non è soltanto una
moda della letteratura di oggi che scava tra i rifiuti delle periferie e delle
campagne appestate da roghi tossici e mascalzonate inenarrabili in quanto a
ferocia e idiozia dai nostri contemporanei campioni del delitto infernale e
stupido. Ha radici antiche che solo in parte l’oleografia stucchevole fatta di tamburelli,
mandolini, putipù, pizza e tarantelle è riuscita a mascherare.
La dannazione è l’altro risvolto, immediatamente visibile, di ogni
tinta pastello, basta spostare di poco il punto di vista. Tutto ciò che
scintilla sotto il cielo azzurro e si rispecchia nel mare blu profondo, tra canti e passioncelle gettate alla brezza della sera, assume
subito le tinte fosche dell’inferno, senza passare per le tutte le gradazioni
intermedie.
La dannazione è la storia di Napoli stessa. Il Seicento napoletano, ma
tutta l’età del Viceregno, ne è costellata. Storie d’infamie, soprusi,
taglieggiamenti, processi-farsa, rivoluzioni, ribellioni che scoppiano e più
spesso di quanto le storie ufficiali ci raccontino, più importanti, disperate e
violente di quanto sia stato poi scritto nelle ricostruzioni critiche ufficiali,
radicali, infami, abiette, dannate.
Una città con-dannata a ruolo di subalternità continua, capitale della
miseria, degli straccioni e dei “dirigenti” che su queste miserie si
pavoneggiano, da cui l’intramontabile detto: “Fa ‘o gallo ncoppa 'a munnezza”.
Atteggiamento tipico, teatrale, sciocco, fatuo, vuoto e maligno del nobile,
teatro dell’inutilità e della vuotezza intellettuale. Nobili come dirigenti falliti, e presi-per-il-culo dalla autorità spagnola. Costretti in questi ruoli di sterili comparse sulla scena della politica dove tutte le scelte che contavano erano eseguite soltanto dagli spagnoli dominatori.
E così, lungo la storia napoletana, sfilano come puttane dismesse e invecchiate, scatasciate e sciatte, sporche e malate, vecchie "spitalere" come scriveva Basile, gli intellettuali, i dirigenti, i “comandanti”, i capipopolo improvvisati, i commendatori, i ragionieri delle disgrazie, i sindaci inutili, i consiglieri da quattro soldi, “masanielli improvvisati”,
tutti “galli sulla monnezza”, attori di una farsa senza fine contro lo sfondo
di una plebe reietta prima e delinquenziale, ribelle a modo suo, riscattata sul piano della nefandezza delinquenziale, confusione di un antico ribellismo scaduto nel crimine ottuso e antitutto, oggi.
E infine il popolo, la massa bruta che fa paura, che quando poi insorge, sventra per strada i suoi carnefici,
come accadde con Starace, eletto del popolo, grassatore smascherato e
letteralmente fatto a pezzi, distrutto, nichilizzato, disintegrato,
strascinato, mbruscenato nel suo sangue, con le budella di fuori, senza gambe,
senza braccia, senza testa con il tronco separato dal ventre aperto, squartato,
liquefatto, in una lordura di polvere, sangue e carne smaciullata, consunta,
sfibrata.
Qui, nel Delitto, siamo
lontani dalla teatralità violenta e apocalittica della piazza inferocita, della fiera scatenata e accecata dall'odio. Ma il teatro c’è sempre, con i
suoi “tipi”. E’ un teatro d’interni, di dialoghi serrati, ridondanti, ripetitivi,
ossessivi: “Mi ami”, “Ti amo”, “Non mi lascerai”, “Non ti lascerò”, “Sei triste”,
“Penso”, “A che pensi”, “Tu hai un’amante”, “Può essere”, “Tu menti”, “Può
darsi”, e l’inganno, l’ossessione misurata e calcolata dalla penna della
scrittrice esperta che gioca con i sentimenti salottieri dell’epoca, gira,
insiste, ossessiva, pervicace, sempre intorno allo stesso tema.
Ma sono dialoghi tra sordi. Tra gente che non si comprende, non si accetta, non si accoglie. Umanità cieca e dotata, anch'essa, di una violenza senza fine. La violenza che viene dall'ignorare in maniera radicale l'altro. Dall'autoconcetrazione esasperata e indifferente a tutto. Tra esseri distanti e chiusi su se stessi che mettono fra loro
distanze abissali, interi universi di lontananza.
E’ un tipico romanzo d’appendice, un feuilleton classico, con le
tipologie di personaggi stereotipate, un po’ rigidi nel ruolo: il cattivo
è perfido e basta, non accenna mai a un cedimento nel suo statuto di crudeltà,
il buono lo è fino alla nausea del lettore, l’ingenua la prenderesti a un certo
punto a schiaffi dicendole “E ti dai una mossa o no?” e la donna temeraria e
bellissima (un grandissimo puttanone d’alto bordo, giovane, affascinantissima,
mora, occhi di fuoco, pelle dorata e corpo seducente, alta, nel suo
straordinario incedere e nella sua finissima intelligenza) si converte alla
bontà per amore e diventa quasi una santa. Insomma o bianco o nero, non ci sono
sfumature, né transizioni di colore, gradazioni. Solo cesure nette.
E capisci che una navigata come la Serao sa bene che nelle passioni e
nei sentimenti valgono tutte le sfumature possibili, che si è bianchi e neri allo stesso tempo, che
sotto la bontà più adamantina si nasconde l’abisso putrido del fratello
crudele, satanico, inabissato nel profondo del mondo interiore. Che il sentimento del buono è squarciato, quanto meno te l'aspetti, dall'odio più feroce, insaziabile, pestifero, mortificante, crudele fino alla morte e oltre. Che il male si cela al di sotto del bene.
Come dimenticare Jeckill e Hide?
Come dimenticare Jeckill e Hide?
Ma quella di cui qui parliamo è una letteratura “popolare” che deve parlare a tutti, ai
sentimenti semplici. Che la gente, quando legge un feuilleton, non vuole pensare troppo, vuole essere
trascinata con i suoi sentimenti ma un poco solo, un pochino, commentare e
starne fuori, un sano vojerismo che se
ne sta da parte e gode, un po’ sadicamente, delle disgrazie altrui. Un po’
quello che succede oggi quando si parla della cronaca nera e si mettono in
piedi interi palinsesti televisivi sui delitti apparentemente inspiegabili come quello di Cogne, il contadino e l'uccisione-stupro familiare della nipote ragazzina ecc. ecc.
Dunque nulla di nuovo sotto il sole. Agli inizi del Novecento come
oggi, a un secolo buono di distanza.
La Serao si produce in un intreccio amoroso a doppia mandata: lui ama
lei che non lo ricambia; lei invece ama un altro che è un perfido che la
sfrutta e ordina a un delinquentello di spararle, riducendola in fin di vita. Il perfido ama la
donna bellissima che lo schifa e costei, a sua volta, ama il primo della lista
che non la pensa proprio, perché è perduto appresso all’altra. Una catena d’incomprensioni
e sentimenti reietti. Uno insegue l’altro che sfugge e s’aggrappa a colui o
colei che lo precede.
Così tutti, ma proprio tutti, si avviliscono nel loro ruolo fino allo
struggimento più totale. E l’unico che sembra farla franca, fino all’ultimo,
che lo scanneresti con le tue mani, è il perfido, incallito nella sua
cattiveria smaccata e purulenta, smaltata solo da un po’ di brillantina da
salotto e di qualche quarto di nobiltà. Insomma, c’è di che storcere le labbra
e cestinare.
Eppure, eppure ... che mestiere, che fine capacità quella della Serao!
Che smaliziata abile professionista della narrativa. Su una storiella
che, fin dall’inizio svela il suo trucco, per così dire, la Serao riesce a
lavorare come un vero Hitchcock d’annata, un Abel Ferrara, un Quentin Tarantino
in gonnella. Intesse dialoghi, ambientazioni, descrive Napoli, i suoi vicoli, i
suoi topoi d’eccezione, dipinge macchiette verosimili ai bordi del drammone,
mamme farabutte che seguono nel delitto i loro figli camorristi e rapiscono
bambini, e zii improponibili tenerissimi di altri tempi, altre epoche
definitivamente tramontate.
Ci vedi subito, nei panni dei protagonisti, come in un film,
Amedeo Nazzari e Yvonne Sanson o Gassman nella parte del cattivissimo
duca San Luciano (il perfido per l’appunto).
Ma dicevo, è un giallone che si fa leggere, anche oggi, come un’opera
di secondo piano ma di alto, altissimo mestiere.
E la Serao ne esce a testa alta, come sapiente professionista della
scrittura.
Anche perché noi dobbiamo pensare che venne pubblicato nel 1908.
Camilleri, in una sua bellissima chiacchierata sul suo ultimo lavoro per Sellerio (qui), ci
apre in qualche modo gli occhi sulla letteratura di genere, d’evasione e di
sapiente intrattenimento di quell’epoca.
Noi oggi abbiamo giornali, TV, Cinema, Telefilm, Internet, ebook
interattivi, videogames, film tridimensionali, ecc.
All’epoca non c’era nulla. Il teatro, quando c’era. Poi i giornali.
Della radio, ovviamente, manco l’ombra. Roba degli anni trenta-quaranta.
E i circoli, di piccola e media borghesia che leggevano i giornali (e
i romanzi d’appendice, a esso legati a puntate) e li discutevano. Straordinaria
invenzione i circoli. Si riunivano ogni sera e discutevano, leggevano,
commentavano, raccontavano. Come i bisavoli intorno al fuoco, a fare breccia nel
cuore degli altri con i racconti, la fantasia.
Quando penso a queste scene rimpiango di non essere nato in quel
tempo. Che meraviglia!
Ancora quando io ero piccolo,
non c’era la TV e allora la sera, mia madre, poco spesso, ma quasi sempre mia
nonna raccontavano. Le storie di Parasacco e Miezoculillo con il loro sacco che
salivano le scale a insacchettare bambini terribili e portarseli alla casa caura.
Così sento e capisco anche Lo
cunto de li Cunti di Basile. Mi torna familiare, nonostante i quasi
quattrocento anni che ci separano
T’immagini discutere delle disgrazie della protagonista vessata dal
bel tenebroso, il pezzo di merda che la prende per il sedere e la uccide a poco
alla volta? Aspetta la sua morte per un’eredità?
La provoca, a poco alla volta?
Ed ecco il fascino di questa letteratura e la sua grande funzione. Una
funzione sociale. E allora torna la nostra Serao, pasionaria, e attenta scrutatrice
di anime e di parole. Bello.
Mi sono ucciso a decodificare il testo, a metterlo in ordine.
In breve, ho perso circa una settimana a pulire il testo, che aveva
tutti gli a-capo sbagliati, le virgolette sbagliate, errori d’ortografia e chi
più ne ha ne metta.
Lo pubblicherò in ArchigraficA perché penso che lo meriti ampiamente,
tra classici. Per rispetto dovuto a una scrittrice alla quale il fascismo
fottette il Nobel, passandolo alla Deledda. Per carità brava quest’ultima, ma
non sanguigna e passionale, aperta, infervorata, battagliera e dolcissima come
la nostra donna Matilde.
Scusate se vi ho fatto perder tempo con questo mio post.
Ma queste chiacchiere è per dire che tra poco farà la sua apparizione
nei Classici di ArchigraficA Il delitto
della via Chiatamone e spero che voi
vogliate darvi uno sguardo, con un po’ di tolleranza. Perché Donna
Matilde merita la nostra attenzione.
E magari che la rispettassimo come un Nobel.