Una storia dimenticata, quasi una favola quella raccontata da Mario Pagliaro.
Il ponte della Valle di Durazzano, un libro su un monumento "dimenticato".
Il ponte della Valle di Durazzano, un libro su un monumento "dimenticato".
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di Giacomo Ricci
«Venezia, simile a Tiro per
perfezione di bellezza, ma inferiore per durata di dominio, giace ancora
dinanzi ai nostri sguardi come era nel periodo finale della sua decadenza: un
fantasma sulle sabbie del mare, così debole, così silenziosa, così spoglia di
tutto all’infuori della sua bellezza…»
John Ruskin
Favola, la definisce il suo autore. Effettivamente, nella
storia del ponte di Durazzano, gli elementi ci sono tutti. Il luogo, l’opera
grande, il tempo e la sua damnatio memoriae, il grande artista (ma anche
esperto ingegnere), l’antagonista potente e le sue oscure ragioni e,
soprattutto, come in ogni favola che si rispetti, l’incipit classico che, come
si ricorderà, suona pressappoco in questo modo: «C’era una volta un re che
viveva in un magnifico paese…».
Certo di favola si tratta ma anche di storia,
quella che qualcuno magari si azzarderebbe a scrivere con la «S» maiuscola,
visto che si tratta del lavoro dimenticato di un grande architetto per conto di
un grande re, per una grande opera, e, infine, di un grande antagonista.
E
diciamo subito i nomi: Luigi Vanvitelli l’artista, Carlo III di Borbone il re,
la reggia di Caserta il luogo e Bernardo Tanucci l’antagonista.
Il ponte di
cui ci parla Mario Pagliaro, autore del saggio che vi accingete a leggere, é
quello di Durazzano, una delle tre grandi opere d’ingegneria che l’architetto
progettò e realizzò, per dare corpo a un sogno, trasportare l’acqua dalle sorgenti
del Fizzo, alle falde del Monte Taburno, attraversando valli e montagne, fino
ad alimentare lo spettacolo magnifico di una reggia e del suo parco. E più che
magnificare il signore che la volle, il re buono, come sempre si é chiamato
dalle nostre parti, queste acque fresche e meravigliose che uscivano dalla
fontana a monte del grande parco, finalmente sancivano la nascita di un potente
stato del Sud, quel Regno delle due Sicilie, non più colonia, com’era stato per
secoli di dominazione straniera, ma nazione autonoma e sovrana, splendida e
straordinaria. Quella terra che Goethe ci invidiò e descrisse con calore e
compiacenza.
Splendida perché lo fu, magnifica per il significato che assunse
nella penisola italiana degli inizi del Settecento.
E’ utile ricordare queste circostanze perché la damnatio
memoriae di cui ho detto é stata ordita ad arte. Ma di questo dirò tra
poco.
La reggia di Caserta rimane, ancora oggi, a dispetto di tutto, la
straordinaria testimonianza di un regno indipendente del Sud d’Italia.
Quello
Stato delle due Sicilie che fu uno dei più importanti dell’Europa del suo tempo
e che, al contrario, ci é stato ricordato, fin dai primi giorni di scuola, come
orrore, nazione arretrata e brutale, tanto da assimilare la parola «Borbone» (finanche
nell’ufficialità dei dizionari di lingua italiana) a termini come
«arretratezza», «barbarie», «ignoranza», «assolutismo».
Oggi, per fortuna, di
quest’operazione di mistificazione si sta venendo a capo e si fa spazio la
consapevolezza che il Regno delle due Sicilie non fu diverso dagli altri stati
nazionali europei come Inghilterra, Spagna e Francia. Napoli, sua capitale fu
alla pari, per grandezza, popolazione e splendore, di altre come Parigi e
Londra.
E scusate se é poco.
Poi ci sono state le guerre d’«indipendenza» e
l’«unità» d’Italia. E tutto, come purtroppo sperimentiamo ogni giorno, ha preso
una piega diversa. E ora sappiamo come l’Italia del Sud non abbia guadagnato lo
status di nazione, ma sia stata ridotta, nuovamente a colonia interna che ha
perduto una guerra.
E si sa che, quando si perde, si deve pagare. In termini
economici, di popolazione sottomessa e umiliata e soprattutto in termini di
memoria. Chi perde é sempre distrutto soprattutto sotto il profilo culturale.
La storia, insomma, come abbiamo imparato, la scrivono i vincitori.
Ed ecco
che la lotta viene condotta anche contro i simboli del passato potere. Così la
reggia di Caserta, nata per fare concorrenza a Versailles, l’acquedotto che
Vanvitelli costruì, tra i più importanti, in diretta concorrenza
architettonico-progettuale con i romani, i più grandi ingegneri che la storia
d’Occidente ricordi, é stato condannato all’incuria, all’abbandono, alla sua
declassificazione da simbolo denso di significato a rudere di un passato da dimenticare.
E’ in questa luce che si deve guardare a un giornalista come Giorgio Bocca che,
in un’intervista televisiva, rilasciata poco prima di morire, parlando di Carlo
III, non ebbe dubbi nel definirlo un «vero megalomane» (sue testuali parole) e
che invece di spendere tanti soldi in un’opera di automagnificazione, avrebbe
fatto meglio a costruire scuole, uffici postali, asili nido.
Evidente la
demagogia e anche la banalità provocatoria di affermazioni come queste. Ma ciò
che a noi interessa é il metodo, quella della damnatio memoriae, per
l’appunto. Distruggi il simbolo, mettilo in ridicolo, e avrai distrutto il
significato che porta.
Sennonché si tratta di luoghi e simboli, a dispetto di
una certa «democrazia» basata sullo sviluppo del capitale del Nord ai danni del
Sud, duri a morire. E colgo l’occasione per enfatizzare come quel capitale,
costruito con l’apporto fondamentale dell’emigrazione interna di intere
generazioni private del loro significato originario, una volta scoperta la
mondializzazione, se ne sia fuggito altrove dall’Italia, fottendosene della
nazione e del danaro che le ha munto negli anni passati. Altro che nazione,
altro che unità. Il capitale persegue solo il suo fine, che é l’accumulazione e
il profitto, a dispetto di qualsiasi altra ideologia.
Ma i monumenti, quando
sono tali per carica simbolica, artistica, culturale e politica che contengono,
sono duri a morire. Nascono proprio per ricordare e ammonire e dunque sfidano
il tempo e le opinioni transeunti dei giornalisti confusi, come Bocca.
Si
tratta di monumenti, come ci ricorda Pagliaro, che resistono agli attacchi del
tempo, anche al massacro al quale la camorra ha sottoposto le terre del
Casertano, trasformandole in inferno qui in terra. E anche qui ci sarebbe da
riflettere per la localizzazione del potere mafioso e la sua stretta
funzionalità alla nascita e alla prosperità (si fa per dire) della nazione
Italia unita.
I monumenti sono nati per lottare. E in questo generale processo
di riconquista del significato i lavori come quello di Mario Pagliaro finiscono
per affiancarli, sottolineandone la funzione e il senso, acquistando un ruolo
di primaria importanza.
Il saggio-fabula di Pagliaro ha un doppio merito.
Quello della riappropriazione che il Sud sta compiendo della propria storia. Ma
anche quello dell’analisi (dimenticata) del valore estetico di opere nate per
puri scopi tecnici. E a quest’aspetto, Pagliaro, a ragione, tiene molto.
«Nell’atteggiamento che traspare nella storia del
Carolino – scrive – si può rilevare come la popolarità, la mitizzazione,
la garanzia della carica simbolica, siano state una conseguenza perseguita e
diretta dal Regio Architetto attraverso il consapevole e continuo ricercare la
creazione di momenti celebrativi. Episodi utili a permettere che la
straordinarietà dell’opera non restasse “sepolta nelle viscere della terra”,
bensì potesse rendersi evidente e con essa, i meriti del suo ideatore e la
potenza dei suoi committenti »
Ecco colto ed evidenziato, in termini
semplici ed essenziali, il valore dell’opera d’ingegneria nel suo complesso. Il
suo voler dare non soltanto soluzione a un problema pratico (superare un
dislivello naturale per assicurare la continuità della pendenza dall’origine
alla fine del percorso) ma anche ricordare il senso dell’opera, chi l’ha voluta
e chi l’ha eseguita.
Che poi, in sintesi, é sempre stato il vero scopo
dell’architettura (e, più in generale, dell’arte), in tutta la sua lunga
storia, fin dalle origini più remote. Ricordare gli uomini e dare corpo alla
loro volontà di eternizzarsi. E, ricordando se stessi, dare visibilità
all’intero popolo e alla civiltà che li ha generati.
I monumenti ci parlano di un popolo e della grandezza delle
sue idee. Delle sue aspirazioni e dei suoi sogni.
Ecco dunque il senso della bellissima favola che Pagliaro ci
racconta con la bravura di un saggista accorto e la perizia di uno smaliziato
narratore, intervallando la storia con quella dei suoi protagonisti e dei
luoghi interessati.
Così anche il Ponte di Mezzo, di Durazzano, torna a vivere
nella cornice del passato splendore. E il suo essere riconquistato in parte
dalla natura che lo ricopre con le sue essenze e le sue erbe, si addolcisce di
poetica malinconia.
Quella che solo John Ruskin seppe leggere per primo nei
monumenti del passato e nella loro lentissima marcia verso l’oblio. I lavori
come quello di Pagliaro ci aiutano a tenerne memoria. A dispetto di tutte le
guerre.