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ebook di ArchigraficA

giovedì 21 novembre 2013

Giuseppe De Bonito, Carlo III di Borbone


Pensiero diretto a chi confonde l'amore per la patria e la memoria con i localismi. Non ci sarebbe da discutere. Chi fa quest'errore è uno stupido incolto. Solo uno stupido può confondere la ricerca del senso, della memoria, delle radici della nazione napolitana con il localismo. Questo non pregiudica che noi si abbia una visione internazionalista e libera da frontiere. 
Un paradosso? Forse. 
Ma è sui paradossi che nasce il pensiero creativo di noialtri uomini. Perchè la storia è gonfia di paradossi, di apparenti nonsensi. 
Ammettere che l'Italia si sia fatta sul sacrificio violento degli uomini del sud, sul raggiro, sulle ruberie, sulla distruzione della memoria (alla quale ogni popolo ha DIRITTO), sull'emigrazione (esterna e interna), sull'inganno, sul massacro, e che ancora tutto ciò sia in piedi (vedi la terra dei fuochi) NON SIGNIFICA NON VOLER LOTTARE PER UNO STATO UNITO E MODERNO. Non significa che noi si sia neoborbonici senza alcuna riflessione.
Anche se noi meniamo vanto di don Carlos, Borbone, primo re del Regno autonomo del Sud, uomo cauto, aperto e generoso. Il nostro "buon Re". Prova ne siano tutte le architetture che ha promosso per lo splendore della città dei lumi, del suo pensiero e dei suoi intellettuali. Noi, ammettendo le nostre radici, lottiamo per una nazione moderna, l'Italia unita CHE E' LA NOSTRA PATRIA, che vediamo in crisi profonda. Da più parti si dice che lo stato è già fallito, che in capo a dieci anni ci saranno soltanto macerie dello stato unitario. Nel riscoprire il senso della nostra storia, noi gente del sud (e se mi permettete cittadini di Napoli, della sua capitale) lottiamo per uno stato unitario, efficiente, rispettoso dei valori di ognuno, delle differenze, tollerante e aperto, progressista e avanzato, della cultura e della ricerca. Ma non tolleriamo che sulla nostra storia si continuino a dire MENZOGNE e LUOGHI COMUNI. La distruzione della memoria di un popolo è quanto di peggio si possa fare da parte dei vincitori. Ora sarebbe il caso di finirla. Come sarebbe il caso di mettere la parola fine anche alle differenze di valutazione tra nord e sud, e mettere fine alla distruzione sistematica delle nostre terre. E ripartire. Fare un'Italia nuova. Veramente democratica.

giovedì 7 novembre 2013

Una specie di Utopia

Ferdinando IV di Borbone Re delle due Sicilie

di Giacomo Ricci

Voglio raccontarvi in breve la mia utopia. Non credo che sarete d’accordo. Allora mi aspetto il silenzio. Fa nulla. Avrò detto come la penso.
Alla fine credo che noi si sia, niente più e niente meno, che in una fase di completa decadenza di una civiltà. Che potrà durare un tempo abbastanza lungo. La speranza è che, mentre un nuovo ordine si vada maturando, questa “civiltà” del tardo capitaismo globalizzato , nella sua caduta, non travolga tutto mandando a carte quarantotto il pianeta e tutte le sue creature.
Insomma sono molto aderente a quella vecchia idea che una civiltà sia come un essere vivente: nasce, cresce e muore. Questa, a buttare il sangue, ci metterà il tempo che ci vorrà. Ma la cosa che la distingue da quelle precedenti è che ha fatto tutto in fretta, troppo. Ha come una crisi di crescita improvvisa del corpo senza un'adeguata maturazione cerebrale. In questo mio rozzo paragone può essere che, poiché la civiltà del capitalismo è particolarmente stupida, mentre ci mette un po' di tempo a tirare le cuoia, non faccia qualcosa che mandi tutto a quel paese.









 E pare che in questo ci si sia messa con particolare impegno.
        E allora ti saluto pianeta Terra con tutti gli annessi e connessi.
Io credo abbastanza alla forza delle Utopie che sono una specie di guida, un manuale su che fare, come fare e dove dirigersi. Senza che l'utopia si realizzi ma si limiti solo a indicare la strada.
L'utopia che mi gira in testa da un po' di tempo è che il Sud d'Italia si separi dal nord (volutamente con la lettera minuscola), verso il Garigliano, più o meno. Che costituisca un regno del Sud come nella migliore tradizione borbonica. Che il re sia un socialista convinto e che la società produttiva sia organizzata sull'agricoltura, che tutti siano vegetariani (con buona pace di maiali, galline, buoi mucche e affini), che mangino poco (magari una dieta vegana), che si dedichino quello che basta al lavoro (agricoltura, artigianato colto - che è poi quello che salva l'Italia - cultura e educazione, turismo, progettazione, ricerca scientifica) e che, soprattutto, si organizzino in comuni (non istituzioni comunali) ma proprio come la Comune di Parigi e che non ci sia troppa competizione e sia abolito TOTALMENTE il consumismo, TV, pubblicità e tutta la merda simile. Magari rivitalizzando tutti quei piccoli paesi abbandonati per l'emigrazione e ci si organizzi  sul  modello di San Leucio di ferdinandea memoria.
Io credo a quello che disse Goethe, che un poco schizzinoso e scassacazzo era,  e cioè che se Ferdinando IV di Borbone fosse stato un po' più colto sarebbe certamente stato il più grande sovrano dell'Europa.










In fin dei conti mi starebbe bene pagare una corte con il  nostro lavoro collettivo. Mi starebbe bene anche che si autoglorificassero. Ma poi il nostro parlamento non è molto peggio di una corte assolutista? Democrazia? Ma suvvia, mi facciano il piacere, non ci facciano ridere.
Ma la corte che io invoco nella mia utopia dev’essere proprio organizzata come faceva Ferdinando, strafottendosene dell'etichetta, delle convenzioni, dello sfarzo, uno scugnizzo anarchico e ribelle. Un re socialistoide-anarchico. E poi una grande messe di uomini d'intelletto alla maniera dell'abate Ferdinando Galiani e di Genovesi. Un’università degna di questo nome, non quella sottospecie di barzelletta di personaggi più o meno colti (molto meno che più), più o meno preparati (molto meno che più),  che si danno da fare (in tanti, tantissimi) per creare spazio e carriere solo per familiari e compari e non pensano di avere nelle mani una grandissima responsabilità, quella della formazione della coscienza critica, culturale della gioventù: come dire la coscienza del futuro e del possibile sviluppo di una nazione. Già, la nazione. E chi se ne fotte più? Tutti presi e concentrati a pensare ai cazzarielli propri. E che se ne catafottono del futuro, delle generazioni che verranno, dello sviluppo culturale armonioso della società del futuro? 
E poi  soprattutto spazio al teatro, altro che TV, più o meno pubblica!  Un San Carlo in ogni grande città per suonare musica di tutti i generi da Mozart ai Beatles. Ecco quello che ci vuole. 
Musiche di Paisiello, Mozart, Bach, Rolling Stones.
Ma credo che non lo vedrò mai.
Però non posso fare a meno di sperare che l’umanità rinsavisca e si chieda: "Ma a me chi cazzo mo fa' fa' di lavorare tanto, di avere tanti beni che non mi porto appresso quando muoio?".
Una canzone, la pizza e il putipù come i meglio lazzari del regno di Ferdinando, 'o Re Nasone.
E una chitarrella per accompagnarsi mentre si canta a squarciagola lungo il mare.

Affanculo al capitale e chi ancora ci crede nel suo mondo di morte e di miseria.
E, a proposito di musica e godimento, guardatevi, se ne avete il tempo, questa splendida interpretazione del'11° movimento Et incarnatus est della "Grande Messa in Do minore" di Wolfgang Amadeus Mozart. L'ho rintracciata su Youtube. Ne vale la pena:


sabato 2 novembre 2013

Io sono un macho


di Claudio Cajati 
In questo mondo di donne che ci hanno perfino superato di numero. Di donne che pretendono la parità. Di donne in carriera. Di donne che ci comandano addirittura. Di donne che non rinunciano alle loro diaboliche arti erotiche per soggiogarci. Di donne che umiliano la nostra natura incoraggiando in noi dolcezza e affettuosità. Di donne che vanno loro al lavoro e ci lasciano a badare alla casa. Di donne che si arrogano il diritto di darci il voto per le nostre prestazioni a letto. Di donne che giocano a fare le bulle per imitarci e scimmiottano le ruvidezze mascoline. Di donne in comitiva che sghignazzano compiaciute alle nostre spalle. Infine, di donne che si sdegnano e si mobilitano per qualche pover’uomo che perde le staffe e le fa fuori (femminicidio l’hanno chiamato, che parolaccia!).
Ebbene in questo mondo mi vanto di essere un macho: uno che a queste donne vuole togliere il riso e pure il sorriso. Farle piangere un po’, piuttosto.
Ma quello che mi disturba perfino di più è questa succube benevolenza e smaccata tolleranza verso i gay. Viene criminalizzata l’omofobia, ma l’omofobia praticamente l’ho inventata io, sbugiardando, terrorizzando, picchiando decine di froci, in tempi non sospetti. Per ristabilire il primato della virilità.
A queste miserie io oppongo la mia persona. Sono muscoloso e alto, imponente; lo sguardo maliziosamente torvo, la mascella volitiva e squadrata, e un sorriso ambiguo che intriga.
Vado in palestra ogni giorno, perfino la domenica, con la stessa fedeltà di un praticante. Vedere i muscoli crescere, gonfiarsi, è come vedere crescere la mia personalità. E poi, dopo molti giorni di perplessità di fronte agli annunci che promettevano di farlo allungare, di almeno 3 cm, ho ceduto alla tentazione: non c’era inganno! Ora ce l’ho veramente lungo, in sintonia con il resto del gran corpo. Un serpentone affamato, capace di fare la sua bella figura.
Tutto questo ben di dio deve essere presentato come si deve. Ecco allora maglie e camicie aderenti da dentro le quali i muscoli sembrano ansiosi di esplodere; ecco pantaloni capaci all’inguine di disegnare il paccotto prepotente che smania di uscire allo scoperto per dare tutto il suo strepitoso piacere.
E all’appuntamento non ci si può certo presentare con una striminzita scalcagnata berlina: ci vuole un macchinone, del tipo Studebaker per esempio, cabriolet, con le cromature lucidissime, che ci si specchi dentro, come lucidissimi sono i miei bicipiti accuratamente rivestiti di olio di cocco. Mentre sfodero il sorriso più maliardo e spavaldo che ho, faccio rombare a lungo il motore ed è qualcosa come la versione meccanica del mio ruggito leonino.
Le donne non sono mica tutte uguali, ovviamente.
Ci sono quelle che con le loro incontenibili chiacchiere pretendono di tenere testa alla mia superiorità fisica: a queste, con le mie manone robuste, gli tappo la bocca, mi piace sentirle frignare indispettite, e, siccome insistono a divincolarsi, gli faccio assaggiare l’uccellone e così, quasi tutte, si calmano.
Ci sono invece quelle a cui piace subito arrendersi e consegnarsi inermi fra le mi braccia, e non solo le mie braccia. Queste vogliono essere dominate come schiave stupide perché così, incredibilmente, si sentono protette. Alla fine le coccolo e le faccio tornare bambine. Ed ecco che però, come quelle altre, prendono a parlare, parlare, parlare.
Ci sono poi quelle insidiose, in forte aumento: quelle che si mostrano disponibili, ma solo per tirarti dentro situazioni imbarazzanti in cui faranno di tutto per dimostrarsi superiori, ribadire la prevalenza della femmina sul maschio. Alle trappole di queste mi oppongo con un tenace mutismo, come se non fossi in grado di capire.
 Questo è quello che posso fare io. Ma sono solo. O quasi solo: ho difficoltà a trovare seguaci. La situazione nella società si è fatta grave. E a tutti questi flop di uomini imbelli e depressi, a tutti questi ostentati successi di donne rampanti, bisognerebbe opporre un esercito di machi, chiamato a rispondere per le rime, a ribaltare l’andazzo.
E finisce poi che rimani vittima di equivoci fatali. Io su quella ragazza carina dai capelli biondi volevo solo fare colpo, niente di più. Mi è venuto di dirle: “Lo sai che ce l’ho lungo 20 centimetri?” Lei mi ha guardata come a dire: “Che esagerazione! Non ci credo…” Al che io in un istante l’ho tirato fuori e gliel’ho poggiato in mano. E quella subito ha cominciato a gridare come una pazza, gridare tanto e tanto a lungo che qualcuno ha pensato bene di chiamare la polizia. E mi sono visto accusato di atti osceni e tentato stupro. Insomma, per una sciocchezzuola del genere, sono finito dentro.

Ma anche qui in galera se ne accorgeranno, sì che se ne accorgeranno: io sono un macho. Dappertutto!

Ciononostante



 di Claudio Cajati


La mia vita? Bersagliata sin dall’infanzia.
Quando sono nato ero così brutto, a unanime parere dei miei genitori, di parenti e amici, che subito fu deciso di stendere un velo di organza nera sulla culla. E la cosa, per quanto terribile, fu accettata da tutti.
Quando venne il periodo di giocare al ‘dottore’ con le bambine, solo apparentemente pudiche, in effetti sfacciate e disinvolte, loro accettavano di farlo con tutti i ragazzini del rione, tranne che con me. E se mi azzardavo a chiedere il perché, mi lanciavano senza parole uno sguardo di disgusto e commiserazione.
Alla scuola media ero di gran lunga il primo della classe. Questo scatenava la rabbiosa invidia dei compagni mediocri, che non erano pochi: prima mi prendevano in giro per la mia bruttezza, poi mi minacciavano, infine, all’uscita dalla scuola, mi tendevano in gruppo agguati e arrivavano a pestarmi a sangue.
Al liceo m’innamorai di Eloisa, una ragazza bellissima, che mi sembrava anche dolce e comprensiva. Dopo una penosa lunghissima titubanza, mi decisi a rivelarle il mio sentimento. Lei non perse un istante per rispondere: mi guardò stupita, poi sprezzante, e mi disse soltanto, con la sua voce acuta e penetrante: “E tu, brutto anatroccolo, pretenderesti di fidanzarti con una come me?”
Venne l’età in cui sentii il desiderio di accasarmi. Ma tutte le ragazze mi respingevano. Credo fosse sempre per la mia bruttezza, e nonostante facessi di tutto per mostrare quanto ero brillante e arguto, quanto potevo risultare simpatico, quanto ero buono affidabile leale. Infine la spuntai: accettò di fidanzarsi con me Genoveffa, una brava ragazza offesa a una gamba a causa della poliomielite.
All’Università mi laureai in Scienze dell’alimentazione. Avrei voluto fare la carriera accademica, ne avevo il talento, la passione e i titoli. Ma a tutti i concorsi, per quanto originali e dotte fossero le mie prove, regolarmente mi bocciavano. E lo facevano con una sorta di profondo fastidio e sordo disprezzo. Presto mi fecero capire che era meglio se rinunciavo. Quasi una benevola minaccia.
Ero spesso in giro alla ricerca di un lavoro. Un giorno, tornando a casa, trovai mia moglie (Genoveffa l’avevo sposata) a letto con un altro. Ero rabbioso ma non gli feci niente. Anzi fu lui, altissimo e robusto anche se zoppo, a picchiare me. Quando volli chiarirmi a quattr’occhi con Genoveffa, lei mi sparò in faccia: “Io ti ho sposato per compassione, io non ti ho mai amato.” Qualche giorno dopo scappò di casa con quell’energumeno. Io rimasi a fare da padre e madre a nostro figlio Romano.
Svanita la prospettiva della carriera accademica, avevo ripiegato sul commercio, però legato alla mia formazione universitaria. Insieme a un mio amico e collega di studi aprii un minimarket di prodotti bio. Le vendite andavano a gonfie vele. Ma, nonostante il prezzo elevato dei prodotti, la cassa languiva. Ci misi un po’ di tempo però, alla fine dell’investigazione, scoprii che la cassiera rubava, e lo faceva in combutta con il mio socio. Resistetti il più a lungo possibile, ma alla fine fui costretto a chiudere.
Dopo la chiusura del minimarket bio, mi sono arrangiato con vari lavori legati al mondo dell’alimentazione. Ho provato a fare il nutrizionista, ma dopo qualche tempo la clientela si è assottigliata fin quasi a sparire: la gente ormai usa disinvoltamente il computer, anche per cose delicate come l’alimentazione. Io sono un esperto, affidabile, ma sono una figura patetica del passato. Insomma mi sono ridotto economicamente proprio male. Così, per quanto fosse umiliante, ho chiesto aiuto a mio figlio Romano. Lui è benestante, fa il professore ordinario alla Facoltà di Ingegneria. Ebbene si è rifiutato di aiutarmi – mi ha appena invitato qualche volta a pranzo la domenica – accampando la scusa delle sue spaventose spese familiari, la casa, la moglie, i figli…
Non fumo più da decenni, e da allora sono stato anche molto attento a evitare il fumo passivo. Eppure l’altro giorno da un check up di routine è risultato che ho un tumore ai polmoni. Si è fatta la biopsia: il tumore è maligno e, per di più, in uno stadio avanzato. Cedendo alla mia insistenza per sapere, mi hanno diagnosticato dai due ai tre mesi di vita, al massimo.
Ciononostante…
Ciononostante, in tutta la mia vita, il male che non mi ha risparmiato nell‘abbattersi su di me, è andato a vuoto. Come protetto da una cera magica su cui ogni offesa della vita scivolava via. Poteva sembrare che nessuno mi volesse bene, ma io ho avuto un’amica fedele, un’amica che non mi ha mai tradito e abbandonato: la Gioia. Quelli che conoscono cosa è stata la mia vita, non si capacitano che io possa essere sereno e positivo. Ma cosa m’importa? So io questa forza calda e tenace che mi pervade e mi avvolge a dispetto dei colpi che vengono dall’esterno, destinati a essere parati e respinti. Tutto il male che ho ricevuto, sin dalla nascita, non mi ha potuto scalfire: come non si può scalfire un diamante con pietre meno dure.

Io resto splendidamente intatto, stretto abbracciato all’amica Gioia. E così accoglierò, trionfante a braccia aperte, anche la morte.