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ebook di ArchigraficA

sabato 31 agosto 2013

Ancora menzogne storiche su Napoli



Carlo III di Borbone, Re di Napoli




di Giacomo Ricci


Alla fine del TG 3 delle 19.00 di  ieri andò in onda un servizio su Achille Lauro e la rapina edilizia della città di Napoli che  con lui sindaco si ebbe.
Faccenda nota, magistralmente raccontata dal film di Rosi Le mani sulla città e che, ogni tanto, viene rispolverata con il dovuto folklore, i riferimenti alla plebe napoletana di tutti i tempi, la rapina della città, lo scempio paesaggistico, la cosiddetta “muraglia di via Aniello Falcone” e così via.
Roba nota e, direi, vecchia abbastanza per entrare nella storia comune delle disgrazie subite da questa città.
Ma la cosa che ci fece letteralmente saltare sulla sedia, a me e mia moglie, fu un’affermazione gettata lì, con grande disinvoltura, dal commentatore del servizio in onda. Il comportamento di Lauro, disse proprio così,  non era stato diverso da quello dei Borbone, sul piano della rapina del territorio e del malgoverno.
Eccolo lì, di nuovo, fare la sua apparizione lo svarione, a dir poco, d’interpretazione storica. Che poi, a voler essere corretti, di svarione non si tratta e nemmeno di una battuta estemporanea. 
No, nient'affatto. A voler essere rigorosi si tratta di un vero e proprio “falso” storico, anzi, diciamola così com’è, di una vera e propria menzogna.
Una menzogna che, anche se probabilmente il malaccorto commentatore di RAI3 non se n'è reso pienamente conto, circola ad arte, assieme ad altre, per dare corpo a un vecchio principio bellico.
Che è, papale papale: quando si sconfigge un popolo e la sua forma politica bisogna che la distruzione sia radicale, fisica, assoluta,  perpetrando un vero e proprio genocidio, sul piano morale e su quello della storia.

Il Parco della Reggia di Caserta

“La guerra è la guerra”, dice un vecchio adagio. Ma noi, nel commentare la storia a posteriori sembriamo sempre dimenticarcene.
Se si sconfigge un popolo sul piano militare si deve proseguire, fino in fondo. Non basta che il suo esercito sia distrutto, che le città siano state messe al sacco e che la popolazione “nemica” sia umiliata non solo nei suoi guerrieri e nel suo esercito ma anche, e soprattutto, nelle sue donne e nei suoi bambini.
Bisogna infierire sui vinti. Bisogna ucciderne quanti più possibile, umiliarli, azzerarne la coscienza, distruggerli. E se non si può per tutta la popolazione, allora bisogna cancellarne la memoria. Questo l'imperativo, questa la necessità. 
Lo dicevano i romani: «Vae victis!».
«Guai ai vinti!»
Che poi non si tratta soltanto di un “beffardo accanimento” dei vincitori sui vinti, come a torto si ritiene. Si tratta sempre, c’è poco da fare, di un vero e proprio progetto di annullamento. Perché la sconfitta non si trasformi in un boomerang, in un feroce insegnamento a quelli che sopravvivono per prendersi la rivincita, è necessario distruggere fino in fondo popolo, memoria e storia.
Riempire la storia futura di una quantità sufficiente di menzogne: i nemici? Sporchi, pidocchiosi, malvagi, affamatori, inetti, imbelli, senzadio, arroganti, incapaci e chi più ne ha più ne metta. 
Dunque «Guai ai vinti».
Così si dà fondo a tutta la libido turpe che se ne sta nel  fondo dell’animo dei vincitori, che si trasformi  in fenomeno concreto, in un vero e proprio atto di sottomissione totale dei vinti, ma soprattutto di un vero e proprio progetto di annullamento dell’alterità, del nemico.
Ché si sa, il nemico è da distruggere in toto, e dunque, nella sua cultura, nella sua stessa antropologia.
Il progetto di annullamento è sempre presente dopo una guerra. Non c’è politica che tenga, non c'è mediazione possibile. Ciò che si deve distruggere e la storia dell’altro, del vinto. A qualsiasi costo.
Ecco che allora lo svarione preso dal cronista del TG3 appartiene  a qualcosa di più grande che lui stesso, nella sua ristrettezza storica e totale disinformazione (vera? falsa?) contribuisce a perpetrare.
Ma noi abbiamo il dovere, a centocinquant'anni di distanza, di chiederci come siano andate veramente le cose. 
Ma diciamolo con chiarezza.
Può esserci paragone storicamente accettabile tra i Borbone e Lauro? Tra Carlo III, primo vero Re che il Regno di Napoli abbia avuto dopo secoli di dominazioni esterne e il buon Achille, imprenditore self-made-man dell'immediato secondo dopoguerra?

Io, se dovessi, esibirmi in azzardati paralleli storici  mi sentirei di paragonare Lauro, meglio e in maniera curiosamente affine,  a un nostro contemporaneo cittadino della nostra Italia contemporanea, molto discusso, ancora sulla breccia da un po’ di tempo. Stessa età, più o meno (circa ottant’anni) stessi vizi (accanimento di prestazioni su giovani donzelle, nonostante il loro essere vegliardi), moglie e  fidanzata ufficial-ufficiosa in contemporanea, grandi guadagni e fortune colossali accumulate, patron di squadre di calcio (il Milan e il Napoli rispettivamente), napoletanitudine come "aura" culturale (?), autentica per il primo, acquisita per il secondo per scelta e vocazione/formazione musical-cultural-crocieristica.
Ma allora chiediamoci: quale sarebbe  il rapporto tra l’edilizia realizzata nel periodo laurino  e quella promossa dal primo Borbone?
Nessuno, ovviamente, come ognuno dotato di cervello e di un minimo di informazione può notare. 
Faccio un rapido elenco?
Per Lauro valgano:
La cosiddetta “muraglia cinese” situata in Via Aniello Falcone, una delle strade panoramiche più felici e belle di Napoli, orribile schiera di palazzacci di speculazione in un posto dallo straordinario valore ambientale, paesaggistico e naturalistico.

La cosiddetta "Muraglia cinese" a Via A. Falcone

Il cosiddetto  Rione Lauro a Fuorigrotta, un lager a dir poco, un orrore edilizio spaventoso.
La palazzata a piazza Mercato che grida ancora vendetta davanti a Dio e gli uomini, in disprezzo del luogo storicamente più rilevante della Napoli del passato e delle passate dominazioni. 

Palazzata a Piazza mercato. In fondo lo storico  campanile del Carmine

Il palazzaccio a Piazza Cavour che sostituì due splendide palazzine neoclassiche e così via.

E per il  Borbone? Allora per Carlo III, il cosiddetto “buon Re” elenchiamo:
La Reggia di Capodimonte e il parco.

La Reggia di Capodimonte
La Reggia di Caserta e il parco. (ricordo per inciso il lavoro fatto dall’architetto per alimentare la cascata, spostando il letto di un fiume e convogliandone le acque in maniera da ingegnere dell’Ottocento. Solo un Eiffel ci avrebbe pensato e ne avrebbe avuto lo spessore. Ma siamo a metà del Settecento, un secolo prima. Questo per sottolinearne il carattere innovativo).

La reggia di Caserta

La trasformazione dell’ex-cavallerizza in Museo Archeologico Nazionale (per inciso Re Carlo avviò gli scavi di Pompei e donò la sua intera collezione “personale” di Cammei e l’intera collezione farnese di statue che gli veniva da sua madre Elisabetta Farnese, per l’appunto).

L'ercole farnese
La Reggia di Portici.

La Reggia di Portici

La Villa Comunale.
E mi fermo qui ricordando che uno degli architetti da lui chiamati per le imprese di cui sopra fu nientedimeno che Luigi Vanvitelli, autore tra l’altro delle opere di ingegneria cui prima facevo cenno.
Ricordo ancora la “speculazione” dell’Ospedale dei Poveri e per i suoi successori la colonia di San Leucio.

L'Ospedale dei Poveri

Il primo rappresentò una delle più grandi opere filantropiche concepite all’epoca atteso che non si parlava ancora di socialismo né tanto meno delle idee illuministe di Fourier che sono più tarde.
La colonia di San Leucio, è una delle idee più “rivoluzionarie” mai realizzate, sotto il profilo tecnico, produttivo e sociale. E metto un particolare accento su quest’ultimo aggettivo. Si trattava nientedimeno che della costruzione di una colonia di lavoro, indipendente e autosufficiente,  per giovani diseredati, facendovi costruire  la macchina tessile più avanzata al mondo come tecnologia. Progetto che diede  inizio ad un esperimento sociale, urbanistico, antropologico, produttivo e innovativo di amplissimo respiro, mai più eguagliato neanche nei regimi cosiddetti “comunisti” contemporanei o appena tramontati.

San Leucio, la grande macchina tessile

Ah, per inciso. Tutti i luoghi di cui fu promotore il buon Re Carlo (stavolta senza virgolette)  sono attualmente musei, tra i più grandi al mondo e che invece quello che sopravvive dell’edilizia laurina è ancora un perfetto pugno nello stomaco.
E a propositi di pugni sullo stomaco, non arriverei a tanto (sotto il profilo metaforico, s’intende) col commentatore di RAI 3 per le stupidaggini che ha detto. Mi limiterei a una buona tiratina d’orecchi, come si usa fare con gli allievi somari, pregandolo di andarsi a studiare  meglio la storia urbanistico-architettonica di Napoli.
Quando la smetteremo di dire bugie da bassa propaganda postbellica? Quando impareremo a mantenere il rispetto dovuto a organizzazioni politiche che nulla hanno da invidiare ad altre e che, nella buona come nella cattiva sorte, sono la nostra memoria (grande) di popoli del Sud?
Per terminare,  il monarchico Lauro era un fautore della monarchia sabauda. Non mi pare che fosse in qualche modo legato a quella dei Borbone.


venerdì 23 agosto 2013

Gatti e filosofia della vita






Gaetanino

di Giacomo Ricci

Il mio gatto mi sale sempre sulle spalle (come in questo momento). E’ una cosa che gli piace fare assai. Non avevo mai avuto un gatto così legato a me. Nessuno dei tanti che abbiamo avuto in tanti anni lo ha fatto.
E’ lui che mi ha scelto come amico ed è fedelissimo. Come potrebbe essere un cane.
Io l’ho chiamato Gaetanino. Ricordando il cane di Renato Pozzetto in un film del quale non ricordo più il nome.
Devo dire di volergli molto bene anche se il suo attaccamento a volte mi sembra morboso e faccio di tutto per sfuggirgli.
L’affetto e la vicinanza di una bestiola sono cose che non si discutono.  Sono affetti reali, incondizionati.
Legami profondi, gratificanti.
Gaetanino è un gatto bellissimo, soriano con discendenze siamesi abbastanza evidenti, tigrato, grigio perla, con occhi verdi e sguardo languido.
Una vera bellezza.
La serenità degli animali nei confronti della vita è un sentire , anzi, meglio, un sentimento  che ci fa bene, ci rende meno aggressivi.  Ci fa più maturi e tolleranti.
Abbiamo molto da imparare  da loro perché, nella nostra crescita, nella nostra definitiva collocazione come specie di homo sapiens sapiens, per il nostro pensiero calcolatore, abbiamo dimenticato molto della natura e delle nostre origini.
Dovremmo, noi tutti, fare un gran passo indietro e riconsiderare  quello che abbiamo abbandonato. Credo che – se il genere umano non cessi prima – l’unica strada percorribile per noi sarà quella del “ritorno”, alla faccia dei progressisti della tecnica e del moderno, verso un modello di vita più equilibrato con la natura e meno aggressivo.

A volte penso che quando si arriva alla mia età  ogni giorno sereno è tempo guadagnato di cui ringraziare chi ci ha dato la vita.
Io lo so che il nostro modo di intendere la trascendenza è mitologico, letterario, fantasioso, non reale. 
Come i bambini riformuliamo a nostra immagine quello che non comprendiamo.
Ma, aver capito questo – questa nostra ingenuità – non nega l’esistenza di una continuità vitale per ognuno di noi.
Anche se è altro dalla nostra capacità di immaginare.
Questo non vuol dire che non ci sia e che noi non siamo  uno stato (con la nostra vita) di un processo più grande del quale facciamo parte che non comprendiamo ma di cui, in maniera oscura e confusa, intuiamo la presenza.
Tutto qua.
Che poi questo processo sia  Dio, il Tutto, l’Universo, che c’importa? L’importante è che ne facciamo parte, da lì veniamo  e lì andiamo.
Tutto qua, per l’appunto.
La cosa complessa e meravigliosa è la vita come processo intelligente, sofisticato e attento che è alla base e governa tutte le creature e che agisce al di sopra e al di fuori di esse, ne determina finalità e azioni.
Alla fine, tutti i comportamenti delle creature viventi sono motivati dalla conservazione e continuazione ordinata del processo ai vari livelli.  Ed è un processo che intuiamo segua un progetto, uno scopo e una finalità. Quindi è un processo intelligente che però noi non comprendiamo. Lo osserviamo, vediamo che esiste ma perché, come e dove ci sfugge. Solo ora ne intravvediamo alcuni aspetti marginali. Ma siamo soltanto agli inizi.
Sarebbe interessante ipotizzare che il genere umano sia innanzitutto capace di sopravvivere alle forti istanze di autodistruzione che sono in campo e poi sia in grado di comprendere i reali meccanismi della vita, del processo, cioè, di cui si è parte.
Ma il cammino appare difficoltosissimo in ogni caso.
Ammesso che, per l’appunto, il genere umano, nel frattempo, per sua intrinseca stupidaggine, non si autodistrugga come tutto, al momento attuale, lascia intendere.
Che dovremmo fare nell’immediato? Rinunciare al consumo sfrenato, ai falsi bisogni, al danaro, alle ricchezze.
Essere poveri di cose e ricchi di natura. Come tutte le altre bestie che popolano la terra. Usare la tecnica ma in maniera estremamente parsimoniosa. Riservare le grandi conquiste  tecnologiche alla medicina e alla ricerca scientifica.
Tutto il resto  dovrebbe essere  vivere della terra e di letteratura.
Annullare tutto il resto.
Si può immaginare un mondo così fatto? E' verosimile?
Non lo so. Forse ci saremo costretti. Dopo una spaventosa carestia che annullerà tutte le nostre (false e ridicole) sicurezze. 
L'uomo impara soffrendo. 
Strana , ma vera equazione della nostra parabola vitale. 
E allora immagino case rurali, città piccolissime, poca energia, comunicazione adeguata e spazio per l’arte, concentrando tutti i nostri sforzi intellettuali su una scienza tesa alla conoscenza della vera natura dei processi vitali e negata alla superproduzione, all’accumulazione e al consumo.
Perché, poi, alcuni uomini dovrebbero essere ricchi? Che significa esser “ricchi”? A che serve? Perché avere tante cose? Non ne bastano poche, ben calibrate?
Oltre a un tetto dove vivere e cibo adeguato (stile vegetariano decisamente), il resto – se non sia arte e godimento dello spirito – a che serve?
Rifuggo dalle utopie che sono (quasi) sempre trappole subdole e infami. Immaginazioni infantili, preludio a ogni forma di barbarie e dittature insulse. 
Quindi smetto subito qualsiasi tentativo di prefigurare  il futuro e di anticiparne l’organizzazione, come esercizio stupido, pericoloso e improbabile.
Vale però il principio di non legarsi alle “cose” come obbiettivo unico e assoluto. Le “cose” sono un mezzo per esistere, nient’altro.
Al contrario di quello che noi oggi crediamo, che le “cose” siano degli obbiettivi da raggiungere, una qualificazione di status.
La nostra vita è effimera. Le “cose” non la rendono più stabile e sicura. Sono semplicemente strumenti.
Poi guardo gli occhi di Gaetanino e mi concilio con il mondo. E non è cosa da poco.
Siamo io, lui, una tazza di caffè per me, e i suoi adorati bocconcini in un piattino.
E il sole sorge anche oggi.
Lo vedo sbucate a poco alla volta, dietro la punta dei Monti del Cilento, dalla finestrella della mia cucina aperta sul giardino. 






Mondi Possibili

Terre di Utopia

progetti immaginari, storie, idee


Ho pubblicato il catalogo di alcuni miei disegni che contiene scritti di Benedetto Gravagnuolo, Pasquale Belfiore e miei. 
Ve li propongo.
Il catalogo in formato pdf è scaricabile da qui

(clik sull'immagine per scaricare il catalogo)



Disegni di fantasia

di Benedetto Gravagnuolo




Nel 1499 il monaco domenicano Francesco Colonna diede alle stampe un libro dal singolare titolo arcaicizzante: Hypnerotomachia Poliphili. Riallacciandosi alla tradizione allegorica del Roman de la Rose, la favola narrava le avventure di Polifilo che, perso d’amore per Pilia, inseguiva nel sogno l’amata inoltrandosi in un immaginario paese delle meraviglie, costellato di architetture fantastiche. Benché illustrato con splendide xilografie ed apprezzato da uomini di cultura come Albrecht Dürer, che acquistò una delle pochissime copie vendute, il libro andò incontro ad un insuccesso di mercato, anche a causa del linguaggio criptico “inventato” dal frate dottissimo mescolando parole greche, latine e italiane. Solo con la traduzione francese nel secolo successivo divenne noto in tutt’Europa, considerato (non a torto) come un trattato di architettura sui generis, una sorta di supplemento onirico a Vitruvio.
Questo episodio mi è tornato alla mente vedendo i disegni di architettura di Giacomo Ricci, pubblicati  nel romanzo Il sogno  Jeronimus Bauknecht. Intuendo i prevedibili interrogativi dei lettori, l’autore gentilmente ci offre tra le mani la chiave di decodifica dell’enigma.
Bauknecht sarebbe stato un giovane architetto tedesco amico di Gropius che, dopo aver preso parte al Novembergruppe e ad altri movimenti d’avanguardia, era partito per un viaggio senza ritorno nel Tibet, alla ricerca di un’antichissima città esotica della quale si erano ormai perse le tracce. Il romantico intellettuale non solo era riuscito a raggiungere la meta anelata, ma anche a rilevare con meticolosa precisione le case  e le strade di quella città orientale, scoprendo alla fine che essa corrispondeva, con sorprendenti analogie, alla città ideale fantasticata dai suoi coetanei espressionisti. Tuttavia Bauknecht morì in quelle terre lontane dimenticato da tutti, perfino dai suoi più intimi amici. Per un caso fortuito, Ricci, avrebbe ritrovato quei disegni preziosi e stava per pubblicarli. Sarebbe stato uno scoop, ma un maledetto incendio li ha definitivamente ridotti in polvere. In preda ad una sorta di transfer medianico, l’autore li avrebbe perciò ridisegnati, finendo con l’identificarsi con lo sfortunato architetto tedesco.
Si tratta di un gioco letterario, che dà il pretesto a Ricci per spiccare un volo icarico nel cielo delle fantasie oniriche. In queste case immaginarie può accadere di tutto: gli interni si trasformano in paesaggi urbanistici e viceversa. Su un tavolo sorgono case e templi; una sedia diventa un campanile; una porta dischiusa apre il sipario su archetipi ancestrali.  Come nel sogno, lo spazio e il tempo perdono il rigore delle coordinate cartesiane. E negli occhi di una donna amata può brillare un mondo utopico in miniatura.
Ma c’è un’altra faccia della medaglia che la favola di Bauknecht rivela a chi la sa intendere. E’ l’attrazione irresistibile che Ricci prova per gli eroi perdenti, per i poeti disarmati, sconfitti dalla storia a causa del loro ostinato attaccamento all’utopia di una città del sole, sospesa tra il cielo e la terra, ed abitata da un’umanità libera dalle catene di quella prigione quotidiana nella quale ci siamo assuefatti a vivere, fino ad accettarla  come l’unica realtà possibile.  Non a caso Ricci ha eletto Le Mont analogue di Renè Daumal ad emblema della sua crociata utopica. Né credo sia casuale il fatto che egli abbia dedicato attenti studi monografici ad architetti “visionari” come Hermann Finsterlin ed il giovane Taut della “collana di vetro” e della “Stadtkrone”.
Non vorrei, dunque, deluderlo con le mie conclusioni ottimistiche. Eppure, nella recente Mostra del libro che si è tenuta lo scorso aprile a Milano, una copia del Polifilo è stata valutata più di cento milioni. Non so quanto potrebbe valere - in termini monetari - il racconto illustrato da Ricci. Ma molto, ne sono certo, in termini culturali.




Visioni di città

di Pasquale Belfiore

Si racconta che il frate Niklaus von der Flüe ebbe la visione di un mandala diviso in sei parti, con al centro l’incoronato volto di Dio. Fu una esperienza terrificante, come tutte le esperienze di presentimento della verità, dice Jung che racconta l’episodio. Frate Klaus non avrebbe potuto resistere alla tremenda esperienza del numinoso se non elaborando, traducendo il simbolo.

“La chiarificazione – racconta sempre Jung – fu raggiunta sull’allora granitico terreno del dogma, che mostrò la propria forza di assimilazione trasformando qualcosa di spaventosamente vivo nella bella intuizione dell’idea originaria.  Essa però avrebbe potuto avere luogo su un terreno completamente diverso: quello della visione stessa e della sua spaventevole realtà, probabilmente a danno del concetto cristiano di Dio e indubbiamente ancor più a danno di frate Niklaus che in quel caso non sarebbe diventato beato, ma magari un eretico (se non addirittura un folle) e avrebbe forse terminato la sua vita sul rogo”.

Qualcosa di simile è forse capitato a Giacomo Ricci, storico e critico dell’architettura, che una decina di anni fa ha avuto anch’egli qualche terrificante visione.  Cosa abbia visto non è dato saperlo. Di certo, anch’egli ha trasformato qualcosa di spaventevolmente vivo nella bella intuizione di disegnare da allora (ossessivamente, come si conviene alla traduzione di un simbolo) immagini di architettura (come si conviene ad un architetto). La silloge è trasparente e sarebbe perfino banale – un architetto che disegna architetture – se non fosse poi intervenuto il “diavolo” ad intrigare le cose.  Perché se il simbolo (sun-ballo) mette insieme, fa coincidere visione e disegni, il diavolo (dia-ballo) li disunisce, aprendo a Ricci spazi di ragionata follia o, meglio, spazi folli governati dalla ragione.
Le opere di Ricci  sono infatti dimostrazioni per assurdo della possibilità di rappresentare il sogno, l’oscuro, il gratuito, le personali nevrosi e manie, lo sberleffo, l’illazione, il diavolo appunto. Ricci vuole dimostrare che il diavolo esiste e parte dall'ipotesi della sua indimostrabilità. Ipotesi vera se c’è un rapporto logico tra disegno e significato: ipotesi falsa se il rapporto c’è ma non è logico. E nulla di “logico” v’è negli ultimi inquietanti quadri di architettura esposti in mostra perché i disegni di palazzi e città non significano rappresentazioni di palazzi e città, ma qualcosa d’altro: significano il sogno, l’oscuro, il gratuito, le personali nevrosi e manie, ecc., il diavolo appunto.
La scissione luciferina tra visione e rappresentazione è fatta da Ricci con due semplici artifici: concatenazione irreale di cose reali, rigorosa coerenza della illogica concatenazione. Che, ad esempio, una scena di città, passando attraverso uno strizzapanni, ne esca appiattita e stirata è ragionevole pensarlo; come è possibile che palazzi e chiese possano stare comodamente assisi sul tavolo da cucina (ed infatti i cantori della metropoli parlano di galvanizzazione) o che nuvole e palloncini facciano decollare fabbriche e campanili (come da qualche tempo accade nelle basi spaziali).
Tutti elementi reali, realisticamente disegnati, concatenati tuttavia in modo irreale. Stando così le cose, nulla v’è di più indiscreto che chiedere il “significato” di tutto ciò. Esiste, certo, ma a noi non è dato saperlo.
Talento grafico, cultura, referenti autorevoli, gran lavoro sulle tecniche di rappresentazione: tutti registrabili.  Il significato no, esistente ma indicibile, come si conviene al diavolo.

C’è tuttavia un piccolo disegno di stampo leonardesco che, unico, forse tradisce un seme di significato. Si chiama Macchina per parlare alla luna. Sublime “sciocchezza” d’un architetto che studia per diventare poeta e nel frattempo si mostra in una mostra per mostrare che il sonno della ragione genera dimostrazioni. 




Altrove 


di Giacomo Ricci 

 “Come ci afferra il grido degli uccelli
Qualunque grido che sia mai stato creato,
Ma già i bambini, giocando all’aperto,
gridano prossimi alla verità del grido.

Giocano il caso. Negli interstizi di questo,
dello spazio-mondo (in cui l’intatto grido
dell’uccello penetra come uomini nel sogno)
spingono i cunei degli strilli loro.

Ahimè, dove siamo? Sempre più liberi,
come gli aquiloni  strappati via, sospesi
a mezz’aria vegliamo con irrisori lembi

dal vento sbrindellati – Dai ordine a chi
grida, oh dio del canto! Ch’ebbri si destino
portando come corrente la testa alta e la lira.”

Rainer Maria Rilke, Sonetti ad Orfeo, II, XXVI


Credo che, da piccolo, anche a me sia capitato di attraversare uno specchio inseguendo, come Alice, un bianconiglio balbettante che correva come un pazzo per un verdissimo prato con una sveglia nelle mani.
Sinceramente non ricordo come e quando tutto ciò sia accaduto. Tutto si perde in una nebbia grigia. Ma, tra i vapori,  nel passare del  tempo, dei frammenti di quella realtà sono emersi lentamente. I miei disegni provengono da quel mondo al di là dello specchio, sono la testimonianza di un fondo dell’anima perduto sotto l’infinità banalità del quotidiano.
Per molto tempo ho creduto che non fossero opera mia e che, nascosto non so da quale parte, qualcuno mi suggerisse, in una sorta di strana scrittura automatica per simboli, le forme e i personaggi di quei disegni.
A poco alla volta, abituandomi a stare in uno strano luogo di mezzo (forse tra la cornice e lo specchio, con il corpo al di là di questo e gli occhi al di qua) ho capito che ero io l’autore e che quel qualcuno che se ne stava altrove era una porzione di me bambino che ancora scalciava per avere diritto alla sua esistenza.
Credo che ognuno di noi abbia un se stesso-bambino  nascosto da qualche parte che vuole tornare a vivere ed ascoltare storie. Le storie, raccontate dalle nostre nonne,  che ci affascinavano e ci facevano un po’ paura. Le storie nelle quali è perfettamente logico che su di un tavolo di legno se ne stia una piccola chiesa di campagna e, più in  là,  ci appaia  sdraiato sulla sabbia un libro dal quale un fiume se ne esce invadendo il paesaggio e finendo in una bottiglia. Mentre in cielo uno stormo di oche cavalcate da frac vuoti con bombette e sciarpe vanno correndo verso l’orizzonte ed il sole,  per sfuggire alla notte che s’è rinchiusa in un cassetto insieme ad un manichino rosa  che legge versi di Rilke da una piccola pergamena scritta a caratteri dorati.

Tutto questo non accade in questo mondo. Ma basta passare lo specchio per vedere e dimenticare le stupidaggini che ci  circondano asfissiandoci e, alla fine, sorridere. Altrove.

mercoledì 21 agosto 2013

L'idiota è il folle





di Giacomo Ricci


Ho giusto finito di leggere L’idiota di Fëdor Dostoevskij. Per la verità è, la mia, una rilettura.
E, per la precisione,  la terza.
La prima risale all’epoca in cui ero poco più che adolescente. La seconda alla mia prima giovinezza. E ora, dopo molti anni, la terza, della maturità, anzi della vecchiaia.
Non so a voi, ma a me accade, dopo molto tempo, di perdere i dettagli della storia, e, spesso, finanche la trama. Qui, ad esempio, avevo completamente dimenticato della morte finale della protagonista, Nastas’ja Filippovna per mano del suo disperato amante Rogozin. Ma tanti altri elementi s’erano perduti nei meandri della memoria.
La terza rilettura è stata dunque opportuna per riscoprire uno dei libri più “pericolosi” di Dostoevskij e trarne un piacere che avevo irrimediabilmente abbandonato.
Perché il senso profondo della lettura, una sorta di calco per l’anima che il libro costruisce per custodire e coltivare i propri sentimenti, quello no, non lo perdo mai. Mi resta come un’impronta, una traccia da seguire per scovare, spesso, il senso, se mai esiste, di quello che faccio, dei miei pensieri, delle mie sensazioni. Trovarne l’origine, il luogo, il posto dove giace un possibile significato.
“Pericoloso” questo libro.
Ne capirete subito il perché.
E per questo, come scrive nella sua acuta presentazione Mauro Martini, i tentativi sono sempre stati quelli di “anestetizzarlo”, disinnescarlo.
Perché è come una specie di bomba a tempo, destinata a scardinare le certezze, i principi, la morale, le convenzioni di un’epoca (ma direi anche, e forse soprattutto, della nostra contemporanea) e smascherare senza mezzi termini la natura dell’uomo che sotto queste maschere si nasconde.
Natura che è dolore, disperazione, solitudine, smarrimento.  
Immaginate di far comparire, dopo duemila anni, Gesucristo nel mondo in completa disfatta della Russia di metà Ottocento, un personaggio mite e “splendente”, capace di comprendere, com-prehendere in senso pienamente etimologico, interiorizzare, abbracciare, mettere dentro di sé,  assumere i mali, le miserie, le debolezze dell’umanità che lo circonda e, soprattutto, di perdonare, di umiliarsi di fronte all’umanità dissennata che lo circonda e di prendere sempre parte per chi gli sta contro, anche se costui non fa nulla per nascondere il suo disprezzo, un disprezzo-difesa verso colui che sente, nella sua pazzia, di esser il solo saggio, l'unico che ha chiaro come comportarsi nel mondo di violenza che l'uomo ha costruito.
Un atto di profonda com-prehensione dell’altro, dunque, di tutte le sue miserie, un atto d’amore incondizionato che si trasforma immediatamente in struggimento, in risoluzione di quel tormento assumendone sulla propria pelle la risoluzione, lo scioglimento.
Perché questo è, in parole povere, il principe Myskin , perno intorno al quale ruota la storia e soprattutto l’umanità intrappolata nei suoi schemi, nelle sue brutture, nelle sue infinite miserie di ogni giorno, convenzioni, leggi, modi di fare, comportamenti, ingordigie, sentimenti che esplodono e che si scontrano.
Così si capisce la natura che sostanzia il principe, l’idiota, per l’appunto, malato di un’epilessia che lo annichilisce, facendogli perdere finanche le dimensioni del tempo e dello spazio per giorni.
Ma questa figura “splendente” del principe che  tenta di illuminare un mondo popolato da uomini e donne che invece vivono nella tenebra e ignorano che tutte le leggi che hanno costruito non sono che trappole, miserie per sfuggire all’assurdità della vita, è ovviamente destinata a restare incompresa, incompiuta e mistificata. Che cos’è uno che accetta dell’altro e dell’umanità tutto ed è sempre pronto al perdono e a capire, interiorizzare le ragioni degli altri se non un “idiota”?
I personaggi che costituiscono il mondo nel quale il principe si muove e sente sono come le marionette in uno spettacolo convenzionale e falso, aderente soltanto a significati imposti. Assolutamente non disposti ad aprirsi l’un verso l’altro, sempre in guerra, pronti a inseguire la loro miserevole felicità effimera e falsa, fatta di miserie, contrapposizioni, guerre, lotte, sopraffazioni.
Pronti ad inseguire il guadagno, passando sugli altri senza scrupoli.
Eppure sono colpiti dalla luce del principe pur non comprendendola affatto.
Lo commiserano perché è altro dal mondo, è fuori, è anormale. Anche qui il termine va ridotto alla scheletrica etimologia, ciò che non è secondo norma.
Anche l’amore è impossibile al di fuori dell’egoismo in questo mondo miserabile di esseri meschini.
Perché ho scritto, in esordio,  che si tratta di uno dei libri più “pericolosi” che Dostoevskij abbia scritto?
Perché indugia al bene, perché ne fa l’unica uscita possibile. Perché mostra che l’ingenuità dell’animo, quello che si fa bambino e non ha paura di apparire fuori dal mondo e dalla spirale delle sue necessità – feroci, becere, violente, assolute, devastanti, “razionali” –, è l’unica strada percorribile per mantenere la propria coerenza dell’anima. Perché è una strada “astorica”, fuori dalle leggi del mondo ferree dell’economia di mercato. Perché chi accetta di tornare all’ingenuità dei bambini è il folle, colui che tutti sfruttano e che è necessariamente condannato a una via senza uscita, la “follia” per l’appunto. O meglio a essere un “idiota” fino alla morte.
Al di là della follia che si richiude in se stessa non c’è che il male.
Una visione assoluta e disperata questa di Dostoevskij, che, nella sua totale negatività, non lascia spazio di redenzione. L’unica redenzione possibile è la “bellezza”. Una bellezza fuori dal tempo, fuori dal mondo degli uomini, fatta di pause interiori poco apprezzabili, di sospensioni, smarrimenti, esseri perduti che s’incontrano solo per attimi, prima che la spirale del mondo li travolga definitivamente. E senza speranza.
Forse è il libro più bello che abbia mai letto.
E penso che, presto, lo rileggerò di nuovo.  

De Giovanni e il metodo del Coccodrillo








di Giacomo Ricci

Ho finito di leggere Il metodo del coccodrillo (Mondadori, marzo 2012) di Maurizio De Giovanni da meno di un minuto. E sento subito la voglia di parlarne. Teso, asciutto, crudele, spasmodico che ti trascina fino all’ultima parola. Con grande partecipazione e un senso di vuoto.
Due i protagonisti, fuoriusciti e, in qualche modo, “dannati” nella città di Napoli con passati tormentati e di sofferenza alle spalle.  Siciliano lui, ispettore Lojacono, confinato, per un’avvelenata soffiata di un collaboratore infedele e lei, sostituto procuratore, fuggita dalla sua Sardegna per dimenticare la morte del giovane amante e complice dell’intera giovinezza.
La storia ha tutte le caratteristiche di  un noir che ti avvolge. E ti lascia un grande amaro in bocca. Per il rigore che la linea del male e degli animi tormentati di questa vicenda traccia lungo la trama. Tutti coinvolti nella morte di qualcuno. Ognuno con una responsabilità morale che pesa come una lama che trafigge l’anima, lacerandola. Nella lontananza, nella sconfitta.
Nessuno vince. Perdono tutti.
Tanto che, alla fine,  ti verrebbe la voglia di un raggio di sole che non esce.
Pioggia, nebbia, finanche il paesaggio del golfo scolorito come un vestito indossato in gioventù e lasciato a sbiadire nell’armadio.
Questo,  lo scenario. Una Napoli angosciata e lontana, tanto da essere assente. Eppure è uno scenario grigio molto coerente con la Napoli che siamo abituati oggi a vivere.
Un ricordo di qualcosa che non sappiamo se sia mai esistito. Forse solo nei ricordi o neanche lì.
Un disegno, un’utopia.
Mi viene in mente uno degli acquerelli di Lusieri che mostra la bellissima collina di Posillipo vista dalla casa degli Hamilton. Mi viene in mente la Napoli del Settecento dell’abate Galiani e delle sue profonde arguzie.
La Napoli lontana e forse mai esistita di favole immaginate e non vere.
Forse, al di là della storia che narra, il noir di De Giovanni è straordinariamente convincente proprio per questo scenario di sofferenza diffusa, che scorre come un velo di umido pieno di polvere su un quadro antico.
La storia è quella di una vendetta e di una pazzia. L’assassino, che non vi dirò chi sia (ma che si capisce presto) è qualcuno che agisce per vendetta, per aver perduto qualcosa di molto caro. Il dolore, si dice, può degenerare in pazzia. Una pazzia lucidissima e dimessa, come un ragioniere che fa i suoi conti e  chiama a partecipare alle sue azioni la negra signora servizievole che porta con sé la vita di giovani innocenti vite per sempre.
Qualcuno vuole far soffrire qualche altro più della morte. E qual è la sofferenza più grande, si chiede l’ispettore Lojacono, se non quella di rapire il bene più prezioso che un uomo ha, i figli, l’amore, il loro affetto?
In specie se chi muore è un’anima innocente, giovane, con una vita da vivere.
Lo strazio diviene l’obiettivo del Coccodrillo, l’essere misterioso che uccide, un serial impazzito, che segue un suo lucido, inafferrabile percorso di follia.
Uno scenario inerte, un ispettore caduto in disgrazia, un sostituto procuratore che ha perso il suo amore da giovane e che ha chiuso con la vita e con gli affetti, commissari inetti e stupidi che rendono le istituzioni vuote e inefficienti, questi i personaggi che si muovono contro lo scenario di una Napoli sbiadita e sofferente, perduta a qualsiasi desiderio di felicità.
Bella storia. Che si legge tutta d’un fiato.
E De Giovanni, come ho detto, migliora il suo stile, la sua efficacia e la sua carica poetica, coinvolgendoci in questa storia dolce e amara, malinconica alla fine della quale, nel dolore, si riesce forse  a intravvedere  qualche spiraglio di luce che si apre lontano. E ci rischiara il cuore. 

venerdì 16 agosto 2013

Agosto, Agosto, pace mia ... non ti conosco






di Maurizio Zenga


Chiedo scusa agli amici di FB se approfitto di un momento di calma, in queste vacanze frenetiche d’agosto, per improvvisare alcune brevi considerazioni su quello che vedo ogni giorno stando sdraiato sul mio lettino sotto l’ombrellone. 
Una massa informe di persone di varia estrazione, in maggioranza famiglie con bambini urlanti, si muove quotidianamente dalla città al mare e viceversa sopportando code infinite di auto, sotto il sole, per godere di poche ore di svago sulla spiaggia. 
Donne deformate dalla cellulite e dal grasso debordante che indossano minuscoli costumi che mostrano volutamente chiappe mostruose e tatuaggi con improbabili simboli esoterici o mitologici di cui, quasi certamente, non conoscono nemmeno il significato, uomini con panze dalla circonferenza smisurata che, dopo aver trangugiato panini dalla dimensione spropositata e dal contenuto misterioso, si abbioccano sui lettini mostrando posture imbarazzanti, bambini perennemente in lacrime che svegliano i panzuti che si incazzano e li apostrofano in modo poco educativo (“…se provi a piagne, te gonfio…”) per poi tornare all’abbiocco e poi al risveglio forzato con l’ennesimo venditore di qualcosa…

“cocco rinfrescante”…
”granitaaaaaaa…” 
“biscotti di Castellammareeeee…”
“ciambelllleeee…”
“nocciolineeeee”… 

E poi anelli, braccialetti, ninnoli di varia natura forma e dimensione, tamburi e borse, occhiali, aquiloni, palloni e salvagenti, vestiti e costumi e ogni sorta di oggetto vendibile grazie al richiamo delle voci diverse che a ciascuno di questi ambulanti professionali o occasionali fa riferimento. 
Ormai, immerso nella lettura del giornale, continuamente interrotta da questi richiami, li riconosco uno per uno. 
C’è quello col fischietto e quello che agita la scatola con le perline, l’indiano che ripete all’infinito una sorta di nenia incomprensibile, quello che ti si avvicina e urla all’improvviso 

vuoi?

quello che batte il tamburo, quello che recita la solita rima del 

“cocco rinfrescante, delizia del bagnante”

quello che ti si piazza sotto l’ombrellone col tavolino per i tatuaggi e ti offre la sua vasta gamma di disegni ma che in realtà ti chiede un bicchiere d’acqua, quello con l’ombrello espositore di gioielli, quello col carretto, quello con la cesta, quello con le borse e gli zaini sulle spalle che al tuo primo cenno del capo (una gentilezza che si accompagna ad un sorriso di cortesia), prima ancora che tu possa dire “no…grazie”, ti ha già svuotato sui piedi la sua vasta gamma di oggetti prodotti in chissà quale paese lontano.

La lettura e il riposo, a questo punto, diventano una finzione, un’illusione, una chimera e lo sguardo si perde su questo panorama indefinito di mare limpido (sarà vero?) e varia, derelitta, umanità, mescolandosi alle notizie di una campagna pubblicitaria per “l’agibilità politica” del tipetto che ha distrutto in venti anni questo Paese, una volta meraviglioso, per curare i sui loschi interessi e che poco si è curato di questa gente che ha invece, deliberatamente, ridotto in questo stato penoso di incultura e abiezione.

Una volta il tatuaggio distingueva il “galeotto” dalla persona per bene e l’atteggiamento disinibito e provocante della donna anziana in tanga che esibiva spudoratamente le proprie forme flaccide al pubblico, distingueva una battona dalla madre di famiglia… 
Oggi non è più così e la massa che il tipetto dalla testa catramata ha formato principalmente con il suo modello cultural-televisivo oggi si presenta così… 
Brutta, sporca e cattiva ma soprattutto molto confusa…

Buone vacanze a tutti.