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ebook di ArchigraficA

giovedì 20 settembre 2012

Il delitto della via Chiatamone di Matilde Serao



Matilde Serao


di Giacomo Ricci



Inizio questa mia presentazione de Il delitto della via Chiatamone di Matilde Serao un po’ fuori fase.
Mi sento, come si dice a Napoli,  un po’ nzallanuto.
Uso un  termine napoletano perché la Serao, diciamolo subito, è una grande rappresentante della realtà napoletana non soltanto sotto il profilo letterario e culturale, ma anche e soprattutto perché di questa città comprese l’anima  e ne condivise  le sofferenze. Ne colse lo spirito e lo fece suo. Non soltanto nei suoi lavori più “alti”, ma anche in quelli, per così dire,  di “mestiere”, proprio come questo Delitto che  qui vogliamo introdurre.
Perché, bisogna dirlo subito, è opera di mestiere, diretta a un pubblico ben preciso, di cui solletica il gusto salottiero e un po’ vojeristico, piccolo-medio borghese, che ama lo spettacolo dello struggimento dell’anima purché – anzi soprattutto – non lo riguardi.
No, la mia non è demenza senile (non ancora, spero).
E’ che, come si dice a Napoli, mi è pruruto il mazzo di mettere in pulito per la pubblicazione sotto forma di ebook,  un lavoro della Serao un po’ dimenticato che si trova con difficoltà sia in libreria (l’ultima riedizione è di Sonzogno e risale al 1972) sia sul web e che è una specie di singolarità della scrittrice napoletana, anche se ampiamente nel genere di cui ora ho detto.
Sono riuscito a scaricarlo da un portale mezzo pirata nel quale non so come sono finito. 
Ma la riedizione è opera lecita – e mio parere necessaria –  visto che i diritti d’autore sono scaduti da anni. Ed è a mio parere assai interessante sotto il profilo letterario, per cogliere un’epoca e i suoi gusti di consumo, per così dire.
Era un po’ di tempo che lo cercavo. Perché, assieme a La mano tagliata della stessa Serao e Il mio cadavere di Francesco Mastriani (vedi che titoli d’allegria!) sono i primi “gialli” non solo napoletani ma italiani. O almeno compaiono a pieno titolo in quello sparuto gruppetto di opere letterarie che seguono la moda d’oltreoceano inaugurata dal maestro Edgar Allan Poe e che qui vede tra i primi proprio Mastriani e De Marchi con il suo Cappello del prete

Diciamo subito che non si tratta, ovviamente, di una delle opere migliori della Serao.  La migliore per me resta, per la passione politica (ah, quanto avrebbero i nostri uomini “politici” da imparare da questa donna con i piedi nell’Ottocento e la testa verso il futuro, il Novecento e ben oltre, con grinta e onestà da vendere, dialettica e forza critica) il Ventre di Napoli. Un lavoro insuperabile, un’arringa accorata e sentita,  dove  l’autrice a mani piene e senza alcun riguardo manda affanculo il ministro De Pretis dicendogli, a muso duro,  che il Risanamento è una boiata e una presa per i fondelli del disgraziatissimo  popolo napoletano. E che ben altro sarebbe necessario per metter fine a miseria e disgrazie come il colera e la povertà. Nient’altro che una speculazione bella e buona, questo sarebbe, secondo la sua (e anche nostra) opinione,  il “risanamento” che nulla ha risanato, semmai aggravato la situazione  urbanistica complessiva di Napoli, con la realizzazione di uno sventramento sconsiderato, urbanisticamente discutibile, schifoso sotto il profilo dell’architettura e del buon gusto. 
Di certo, oggi lo sappiamo, ha nuociuto alla forma della città con un’edilizia vergognosa, falsa, che sembra fatta di cartapesta, (quelle cariatidi dei cosiddetti “Quattro Palazzi” che vergogna da carro piedigrottesco!) sgraziata e bassamente speculativa. Ed è anche, la Serao, straordinaria per la tenerezza infinita che ha per i derelitti ne Il paese di cuccagna, quelle figure meschinelle e pietose di sartine e signorinelle che, nella miseria più nera, sperano nel lotto e nella vincita. 
Non vi ricorda qualcosa di oggi, con l’imperversare di lotterie on-line e televisive che raccomandano, al colmo dell’insopportabile ipocrisia, “di giocare responsabilmente”? Verrebbe veramente voglia di mandarli anche noi affanculo e di indagare chi ci sia dietro, a organizzare il tutto, i suoi legami con quali ambienti e quali finanziamenti. Ma di sbattergli sul viso Il giocatore di Dostoewsji e tutta la miseria, l’abbrutimento del gioco, vizio, dipendenza, droga di cui l’autore parla in maniera essenziale e violenta è gusto che non voglio perdere. 
E leggetevelo prima di proporre lotterie, rischio e "avventura" ricorrendo anche a personaggi dello sport, leggetevelo e imparate da chi il vizio del gioco l'ha sofferto di prima persona e l'ha vissuto come abbrutimento, droga! Altro che giocare "responsabilmente". Non provate vergogna nel pronunciare parole  che mascherano il bieco profitto? E nessuno di noi si leva per smerdare come si conviene simile gente?
Tutto torna e tutto è sempre lo stesso, quando si parla di furbi e di sfruttamento dell’abbrutimento popolare.
E ti chiedi che fine abbiano fatto gli intellettuali in questa Napoli tormentata e violenta, da sempre.  Dove stanno? Che fanno? In quale salotto si sono rintanati? L'invettiva della Ortese contro gli intellettuali della Napoli degli anni Cinquanta torna utile, attualissima. 
A quale bandiera vi siete votati  intellettuali, scrittori, professori?  Dove siete? Dove sono le vostre parole, le vostre riflessioni? Dov'è il vostro impegno? Possibile che una giornalista di un secolo fa abbia più grinta e fervore di voi? Che sia più attuale della vostra asettica contemporaneità?
Poco cambia qualche avanzamento tecnologico sul piano dei reali motori che muovono la nostra disgraziatissima storia occidentale, basata da sempre sullo sfruttamento intensivo e spietato dei deboli, lo stesso cinismo, la stessa protervia, lo stesso stupido, cieco esibizionismo teatrale di tanti anni fa. La Napoli del vicereame come quella oggi “democratica” dell’Italia contemporanea, dei misteri che non si spiegano, della mafia, della politica corrotta, dell’assurdo elevato a sistema, delle cricche, dei nepotismi violenti e strafottenti, dell’arroganza, della stupidità ai posti di governo.
Ma questi argomenti ci porterebbero troppo lontano da quello di cui vi voglio parlare.

Il libro di cui qui parliamo è un giallo, a stretto rigore, come, del resto, recita anche lo stesso titolo.
Ma andiamo all’inizio della storia.
Un tram cammina per la via Chiatamone. Dentro ci sono poche persone, una ragazza bella e affranta, pallida, turbata, dalle lunghe trecce bionde, la pelle candida ma emaciata, consunta da un non so quale interiore tormento, un giovane marinaro che se la mangia con gli occhi e l’ama a prima vista, una vecchia megera che subito dà l’impressione di tramare qualcosa di losco, il conducente del tram, il fattorino.
La ragazza è povera. Lo scopriamo subito perché non ha i soldi per il biglietto di prima classe. Il fattorino, in maniera sgarbata, la spinge verso la seconda classe. Il marinaro si offre per la differenza del biglietto.
Lei è smarrita, balbetta. Rifiuta. E mentre è lì tra la vergogna del denaro che le manca e gli occhi trepidi del giovanotto che vuole aiutarla a tutti i costi, si accascia, immota, colpita, morente. Che le è capitato? E’ svenuta? S’è sentita male?
No. Le hanno sparato. Il corpetto le si bagna di sangue.
Chi è stato? Da dove? Come? E l’arma? La pistola dov’è finita?
«S’è uccisa» dice il fattorino».
«E l’arma dov’è?» chiede il ragazzo spaventatissimo, vedendosela quasi morta sotto gli occhi.
«Bisogna portarla all’ospedale! Ci muore qui subito».
«La polizia. Dobbiamo avvertire la polizia».
«Oh, povero me, proprio sul mio mezzo doveva capitare?» si lamenta il conducente del tram.
Questo l’incipit, direi straordinario,  de  Il delitto della via Chiatamone.
Perché è un inizio a effetto, architettato a dovere, che ti prende. Che è tra i migliori incipit per un giallo. Di alto mestiere, non c’è che dire. C’è già tutto il contenuto della storia. Il lettore intuisce gli ingredienti della narrazione: la povera sventurata (un classico all’epoca, di sicura attrattiva sul pubblico), l’amante rifiutato, il mistero, l’assassino nell’ombra. Perfido. Chi può mai volere la morte di una giovane così bella, così tenera?
E poi il tram. Il delitto quasi perfetto e impensabile. Quasi un classico, come quello della “camera chiusa”. La situazione impossibile. Le hanno sparato da fuori. E come hanno fatto a centrarla?
Chi ha quest’abilità? Un delinquente di mestiere, di certo.
Il lettore, come si dice, è catturato. Non può sottrarsi.  Deve leggere. Vedere che cosa succederà. Un vero è proprio cliff ending, come dice la Läckberg, giallista internazionale affermata nel suo manualetto di scrittura dei noir. Che prende il lettore e lo appende a una cima. Dalla quale si deve muovere, deve andare avanti se vuole evitare il vuoto della sospensione in cui è stato gettato dall’abilità del narratore.
Un incipit, nel suo complesso, che Patrizia Highsmith, ad esempio,  approverebbe senz’altro, con la sua tesi di fondo che il lettore te lo catturi nella storia nei primi dieci righi.
Anche l’atmosfera c’è tutta visto che la storia inizia così:

Più profonda e più malaugurata di tutte le giornate di quel perfido e malaugurato autunno 188... era stata quella del 15 novembre, per Napoli. Scrosci di gelida pioggia cadevano, a intervalli, dalle burrascose nuvole nere;  quando cessava di piovere, si levava un vento di tempesta, a  turbini; l’aria era oscura, il lastrico fangoso; per le vie  centrali vi era un po’ di movimento, ma le vie lontane dal centro  erano deserte; un senso di oppressione dappertutto.”

Ci cadiamo dentro senza accorgercene, vittime di uno scaltro mestiere di scrittrice, d’intelletto fino che sa scegliere le sue parole a effetto e sa costruire, in tre righi, l’atmosfera “maledetta” che segna questa storia.
E scopri inoltre che la Napoli nera, a tinte fosche e sanguigne, di morti ammazzati e anime perdute non è soltanto una moda della letteratura di oggi che scava tra i rifiuti delle periferie e delle campagne appestate da roghi tossici e mascalzonate inenarrabili in quanto a ferocia e idiozia dai nostri contemporanei campioni del delitto infernale e stupido. Ha radici antiche che solo in parte l’oleografia stucchevole  fatta di tamburelli, mandolini, putipù, pizza e tarantelle è riuscita a mascherare.
La dannazione è l’altro risvolto, immediatamente visibile, di ogni tinta pastello, basta spostare di poco il punto di vista. Tutto ciò che scintilla sotto il cielo azzurro e si rispecchia nel mare blu profondo, tra canti e passioncelle gettate alla brezza della sera, assume subito le tinte fosche dell’inferno, senza passare per le tutte le gradazioni intermedie.
La dannazione è la storia di Napoli stessa. Il Seicento napoletano, ma tutta l’età del Viceregno, ne è costellata. Storie d’infamie, soprusi, taglieggiamenti, processi-farsa, rivoluzioni, ribellioni che scoppiano e più spesso di quanto le storie ufficiali ci raccontino, più importanti, disperate e violente di quanto sia stato poi scritto nelle ricostruzioni critiche ufficiali, radicali, infami, abiette, dannate.
Una città con-dannata a ruolo di subalternità continua, capitale della miseria, degli straccioni e dei “dirigenti” che su queste miserie si pavoneggiano, da cui l’intramontabile detto: “Fa ‘o gallo ncoppa 'a munnezza”. Atteggiamento tipico, teatrale, sciocco, fatuo, vuoto e maligno del nobile, teatro dell’inutilità e della vuotezza intellettuale. Nobili come dirigenti falliti, e presi-per-il-culo dalla autorità spagnola. Costretti in  questi ruoli di sterili comparse sulla scena della politica dove tutte le scelte che contavano erano eseguite soltanto dagli spagnoli dominatori.
E così, lungo la storia napoletana, sfilano come puttane dismesse e invecchiate, scatasciate e sciatte, sporche e malate, vecchie "spitalere" come scriveva Basile, gli  intellettuali, i dirigenti, i “comandanti”, i capipopolo improvvisati, i commendatori, i ragionieri delle disgrazie, i sindaci inutili, i consiglieri da quattro soldi, “masanielli improvvisati”, tutti “galli sulla monnezza”, attori di una farsa senza fine contro lo sfondo di una plebe reietta prima e delinquenziale, ribelle a modo suo, riscattata sul piano della nefandezza delinquenziale, confusione di un antico ribellismo scaduto nel crimine ottuso e antitutto, oggi.
E infine  il popolo, la massa bruta che fa paura, che quando poi insorge, sventra per strada i suoi carnefici, come accadde con Starace, eletto del popolo, grassatore smascherato e letteralmente fatto a pezzi, distrutto, nichilizzato, disintegrato, strascinato, mbruscenato nel suo sangue, con le budella di fuori, senza gambe, senza braccia, senza testa con il tronco separato dal ventre aperto, squartato, liquefatto, in una lordura di polvere, sangue e carne smaciullata, consunta, sfibrata.

Qui, nel Delitto, siamo lontani dalla teatralità violenta e apocalittica della piazza inferocita, della fiera scatenata e accecata dall'odio. Ma il teatro c’è sempre, con i suoi “tipi”. E’ un teatro d’interni, di dialoghi serrati, ridondanti, ripetitivi, ossessivi: “Mi ami”, “Ti amo”, “Non mi lascerai”, “Non ti lascerò”, “Sei triste”, “Penso”, “A che pensi”, “Tu hai un’amante”, “Può essere”, “Tu menti”, “Può darsi”, e l’inganno, l’ossessione misurata e calcolata dalla penna della scrittrice esperta che gioca con i sentimenti salottieri dell’epoca, gira, insiste, ossessiva, pervicace, sempre intorno allo stesso tema.
Ma sono dialoghi tra sordi. Tra gente che non si comprende, non si accetta, non si accoglie. Umanità cieca e dotata, anch'essa, di una violenza senza fine. La violenza che viene dall'ignorare in maniera radicale l'altro. Dall'autoconcetrazione esasperata e indifferente a tutto. Tra esseri distanti e  chiusi su se stessi che mettono fra loro distanze abissali, interi universi di lontananza.
E’ un tipico romanzo d’appendice, un feuilleton classico, con le tipologie di personaggi stereotipate, un po’ rigidi nel ruolo:  il cattivo è perfido e basta,  non accenna mai a un cedimento nel suo statuto di crudeltà, il buono lo è fino alla nausea del lettore, l’ingenua la prenderesti a un certo punto a schiaffi dicendole “E ti dai una mossa o no?” e la donna temeraria e bellissima (un grandissimo puttanone d’alto bordo, giovane, affascinantissima, mora, occhi di fuoco, pelle dorata e corpo seducente, alta, nel suo straordinario incedere e nella sua finissima intelligenza) si converte alla bontà per amore e diventa quasi una santa. Insomma o bianco o nero, non ci sono sfumature, né transizioni di colore, gradazioni. Solo cesure nette. 
E capisci che una navigata come la Serao sa bene che nelle passioni e nei sentimenti valgono tutte le sfumature possibili,  che si è bianchi e neri allo stesso tempo, che sotto la bontà più adamantina si nasconde l’abisso putrido del fratello crudele, satanico, inabissato nel profondo del mondo interiore. Che il sentimento del buono è squarciato, quanto meno te l'aspetti, dall'odio più feroce, insaziabile, pestifero, mortificante, crudele fino alla morte e oltre. Che il male si cela al di sotto del bene. 
Come dimenticare Jeckill e Hide?
Ma quella di cui qui parliamo è una letteratura “popolare” che deve parlare a tutti, ai sentimenti semplici. Che la gente, quando legge un feuilleton,  non vuole pensare troppo, vuole essere trascinata con i suoi sentimenti ma un poco solo, un pochino, commentare e starne fuori, un  sano vojerismo che se ne sta da parte e gode, un po’ sadicamente, delle disgrazie altrui. Un po’ quello che succede oggi quando si parla della cronaca nera e si mettono in piedi interi palinsesti televisivi sui delitti apparentemente inspiegabili come quello di Cogne, il contadino e l'uccisione-stupro familiare della nipote ragazzina ecc. ecc. 
Dunque nulla di nuovo sotto il sole. Agli inizi del Novecento come oggi, a un secolo buono di distanza. 
La Serao si produce in un intreccio amoroso a doppia mandata: lui ama lei che non lo ricambia; lei invece  ama un altro che è un perfido che la sfrutta e ordina a un delinquentello di spararle, riducendola in fin di vita. Il perfido ama la donna bellissima che lo schifa e costei, a sua volta, ama il primo della lista che non la pensa proprio, perché è perduto appresso all’altra. Una catena d’incomprensioni e sentimenti reietti. Uno insegue l’altro che sfugge e s’aggrappa a colui o colei che lo precede.  
Così tutti, ma proprio tutti, si avviliscono nel loro ruolo fino allo struggimento più totale. E l’unico che sembra farla franca, fino all’ultimo, che lo scanneresti con le  tue mani, è il perfido, incallito nella sua cattiveria smaccata e purulenta, smaltata solo da un po’ di brillantina da salotto e di qualche quarto di nobiltà. Insomma, c’è di che storcere le labbra e cestinare.
Eppure, eppure ... che mestiere, che fine capacità quella della Serao! Che smaliziata abile professionista della  narrativa. Su una storiella che, fin dall’inizio svela il suo trucco, per così dire, la Serao riesce a lavorare come un vero Hitchcock d’annata, un Abel Ferrara, un Quentin Tarantino in gonnella. Intesse dialoghi, ambientazioni, descrive Napoli, i suoi vicoli, i suoi topoi d’eccezione, dipinge macchiette verosimili ai bordi del drammone, mamme farabutte che seguono nel delitto i loro figli camorristi e rapiscono bambini, e zii improponibili tenerissimi di altri tempi, altre epoche definitivamente tramontate. 
Ci vedi subito, nei panni dei protagonisti, come in un film,  Amedeo Nazzari e Yvonne Sanson o Gassman nella parte del cattivissimo duca San Luciano (il perfido per l’appunto). 
Ma dicevo, è un giallone che si fa leggere, anche oggi, come un’opera di secondo piano ma di alto, altissimo mestiere. 
E la Serao ne esce a testa alta, come sapiente professionista della scrittura. 
Anche perché noi dobbiamo pensare che venne pubblicato nel 1908. 
Camilleri, in una sua bellissima chiacchierata sul suo ultimo lavoro per Sellerio (qui),  ci apre in qualche modo gli occhi sulla letteratura di genere, d’evasione e di sapiente intrattenimento di quell’epoca. 
Noi oggi abbiamo giornali, TV, Cinema, Telefilm, Internet, ebook interattivi, videogames, film tridimensionali, ecc. 
All’epoca non c’era nulla. Il teatro, quando c’era. Poi i giornali. Della radio, ovviamente, manco l’ombra. Roba degli anni trenta-quaranta. 
E i circoli, di piccola e media borghesia che leggevano i giornali (e i romanzi d’appendice, a esso legati a puntate) e li discutevano. Straordinaria invenzione i circoli. Si riunivano ogni sera e discutevano, leggevano, commentavano, raccontavano. Come i bisavoli intorno al fuoco, a fare breccia nel cuore degli altri con i racconti, la fantasia. 
Quando penso a queste scene rimpiango di non essere nato in quel tempo. Che meraviglia!
Ancora quando io ero  piccolo, non c’era la TV e allora la sera, mia madre, poco spesso, ma quasi sempre mia nonna raccontavano. Le storie di Parasacco e Miezoculillo con il loro sacco che salivano le scale a insacchettare bambini terribili e portarseli alla casa caura.  
Così sento e capisco anche Lo cunto de li Cunti di Basile. Mi torna familiare, nonostante i quasi quattrocento anni che ci separano
T’immagini discutere delle disgrazie della protagonista vessata dal bel tenebroso, il pezzo di merda che la prende per il sedere e la uccide a poco alla volta? Aspetta la sua morte per un’eredità?
La provoca, a poco alla volta?
Ed ecco il fascino di questa letteratura e la sua grande funzione. Una funzione sociale. E allora torna la nostra Serao, pasionaria, e attenta scrutatrice di anime e di parole. Bello. 
Mi sono ucciso a decodificare il testo, a metterlo in ordine. 
In breve, ho perso circa una settimana a pulire il testo, che aveva tutti gli a-capo sbagliati, le virgolette sbagliate, errori d’ortografia e chi più ne ha ne metta. 
Lo pubblicherò in ArchigraficA perché penso che lo meriti ampiamente, tra  classici. Per rispetto dovuto a una scrittrice alla quale il fascismo fottette il Nobel, passandolo alla Deledda. Per carità brava quest’ultima, ma non sanguigna e passionale, aperta, infervorata, battagliera e dolcissima come la nostra donna Matilde. 
Scusate se vi ho fatto perder tempo con questo mio post.
Ma queste chiacchiere è per dire che tra poco farà la sua apparizione nei Classici di ArchigraficA Il delitto della via Chiatamone  e spero che voi vogliate darvi uno sguardo, con un  po’ di tolleranza. Perché Donna Matilde merita la nostra attenzione. 
E magari  che la rispettassimo come un Nobel. 

giovedì 6 settembre 2012

Il mito dell'analisi


di Giacomo Ricci



Edgar Poe è un grande poeta.
“Che scoperta! C’era bisogno che mo ce lo dicevi tu”.
Certo, non è una scoperta.
Ma alcune cose che sembrano lasciate, lì, tra le righe che scrive, lasciano davvero sconcertati.
Ad esempio la sua definizione dell’ analisi. Un pezzo magistrale, il suo, che fa da introduzione a uno dei suoi racconti, a mio parere, più raccapriccianti,  I delitti della rue Morgue.
In due racconti, questo ora detto, e quello, famosissimo, de La lettera rubata, fa la sua apparizione Dupin. Il vero incunabolo dal quale è nato, poi, l’Holmes di Conan Doyle. Tanto che, mentre leggi, le figure dei due personaggi si sovrappongono, finendo quasi per coincidere.
Ma qual è il tratto distintivo di Sherlock-Dupin? L’ analisi, per l’appunto. Quella capacità di entrare nelle cose, sotto l’apparenza, di collegare e dividere, di de-durre, condurre fuori, ex-ducere dalle cose il senso vero. E la vera scoperta che il più delle volte questo senso se ne sta dritto dritto davanti ai nostri occhi ma è tanto evidente che non ce ne accorgiamo.
Mi richiama alla mente quella frase incredibile di Ernst Bloch quando parla della stupidità intesa come “quella prossimità alle cose che rende ciechi”. E’ necessario allontanarsi, prendere aria, per così dire,  per avere uno sguardo d’assieme. Di qualsiasi cosa: di un quadro, come di una piazza, come di un problema. Guardare nel complesso, centro e periferia, area e bordo, cuore e capelli, insomma.
L’analisi di cui parla Poe e lo sguardo d’assieme di Bloch non sono proprio la stessa cosa. Ma di tratti in comune ne hanno,  e come.
Ne La lettera rubata, come sanno quelli che l’hanno letto, tutto il gioco sul quale il protagonista maligno basa il suo potere è l’evidenza delle cose. Tanto più stanno sotto i vostri occhi e tanto meno le vedete, sembrano dire Bloch e Poe.
In effetti la stessa logica è quella della ricerca scientifica. Scoprire quello che è evidente e che non si vede.
Ma come si fa? Qui interviene la definizione di Poe. L’analisi spesso viene confusa con quella disciplina che ha a che fare con la matematica (l’analisi matematica). Ma non vi coincide.
Su questa faccenda che Poe, alla fine,  ce l’abbia con la matematica, un tempo, quand’ero molto giovane, mi sarei ferocemente incazzato.
Perché io della matematica avevo il mito. Mi sembrava perfetta.
Tutto c’è e tutto ritorna, sempre. Come back home, in every time. Al di sopra dei secoli, tra gli Egizi assolutisti dei faraoni e dei gatti divini come tra i comunisti di Fidel e il trionfo dei barbutos. Il quadrato costruito sull’ipotenusa è sempre uguale alla somma dei quadrati costruiti sui cateti.
Sempre a sapere veramente che cosa sia un triangolo, aggiunge Poe. Ma lasciamo un attimo Poe e torniamo alla mia giovinezza e alla matematica.
E già. Non lo dico per vantarmi ma io, al liceo,  ero uno di quelli che il libro di testo di matematica e fisica non ce l’aveva e facevo poco o niente gli esercizi a casa. Mi rompevo le palle, ovvio. Preferivo uscirmene con la ragazza. Il mio professore di liceo però non se la prendeva. Perchè ogni volta che m’interrogava non poteva concludere se non dicendo: “Ricci lei è eccellente. Ha lo smalto del matematico puro”.
E già. Mai illuso di essere un matematico puro, che non so nemmeno che cosa voglia dire. Il fatto vero è che mi bastava quello che lui diceva. Viaggiavamo sulla stessa lunghezza d’onda. Lui si spiegava e io lo capivo. Ovvio. Niente di più e niente di meno.
Immaginatevi quanto io ne fossi orgoglioso.
Molti miei compagni di classe schiattavano. M'avessero voluto accirere. 
Ed è stato così pure nei miei studi universitari di ingegneria. Qui le spiegazioni non mi bastavano. Ci è voluto anche uno studio solido e impegnativo. Di ore, ore, ore. Dio, quanto ho studiato nel biennio di ingegneria.
E qui mi sto avvicinando al punto centrale del mio ragionare.
Gli esami di analisi matematica mi hanno visto tra i protagonisti. Voto medio, il mio, era trenta e lode.
E poi? Che è successo?
E’ successo che, dopo un tre anni di felice convivenza universitaria,  io e la matematica ci siamo separati. Una separazione consensuale, come si dice,  civile.  Ognuno per la sua strada. Disciplina che rispetto. Ma, devo dire, un po’ stupidotta. Sì, alla lunga, mi ha rotto le palle. Preferisco la letteratura e le sue ubbie, i suoi intrugli, i suoi misfatti, le sue grandezze. La pittura e le sue visioni allucinate, vagheggianti e feroci. 
E più stupidi mi sembrano quelli che ne fanno un mito (della matematica). Come del resto facevo io  nella mia ingenuità di ragazzo. Come gli ingegneri. Ah! Gli ingegneri!
E sono nel vivo del problema.
Io adoro la mentalità degli architetti.
Si dice che gli architetti sono “imbroglioni" e magari è abbastanza vero.
Adoro il loro modo di pensare, nonostante la mia formazione giovanile da ingegnere.
Un modo di pensare istituzionalmente "impreciso" come scriveva qualche anno fa Nicolas Negroponte, guru mondiale dell'informatica. 
Il pensare degli architetti corrisponde a pieno a quello che dice Poe.
Non sentirete mai un architetto dire “E’ così” ma “potrebbe darsi”. Mai “Si fa così” ma “Io farei”. Si apre il regno del possibile. Che cosa straordinaria. Rendere nella propria mente le cose possibili. Anche quelle improbabili. Come fanno gli artisti, gli utopisti, i sognatori, gli uomini di "poco conto". Quelli che guardano lontano all'orizzonte e sognano di vedere apparire la terra nella massa sconfinata d'acqua che li circonda. 
Non posso non avere davanti agli occhi l’architetto Henry Fonda di Twelve hungry man che insinua la logica perversa e subdola del dubbio nei giurati riuniti in camera di consiglio, decisi a condannare, tutti, il malcapitato di turno. Lui, l'architetto, si infila in questa certezza con il cuneo del dubbio fino a spaccarne la consistenza . Sconvolge gli orizzonti  di  chi ha certezze e, a poco alla volta, smantella il castello di carte delle accuse, lo fa letteralmente andare in frantumi colpo dopo colpo.
E ho sempre davanti il dilemma: Come avrà fatto Brunelleschi a far reggere quella mole enorme di mattoni, tonnellate e tonnellate di argilla cotta,  a 100 metri da terra? Il bello è che un “modello” inerpretativo nonsotante gli sforzi, la nostra “scienza delle costruzioni”, figlia bastarda e zoccola della matematica e della fisica, non  ce l’ha ancora dato. Zoccoleggia con le sue espressioni, le sue equazioni, i suoi teoremi. Ma va sempre a buca.
Edgar Allan Poe batte Vincenzo Franciosi 2 a zero, avremmo detto noi birbanti studenti di ingegneria di tanti anni fa. 
E Ser  Pippo di Brunellesco, orafo, tombarolo con Donatello nella Roma antica, gioielliere fottuto dalla maestria di Lorenzo Ghiberti, puntuto genio inventore del sistema di tirar su la cupola senza bisogno di centinature,  di matematica ne mazzicava proprio poca. Senza integrali, equazioni differenziali, modelli, solidi di De Saint Venant, isotropia, anisotropia, omogenità, diagrammi tensionali  e altre cazzate del genere.
Poe ci confida, sempre nell’introduzione ai Delitti, che non ama il gioco degli scacchi. E come mai? si chiederà qualcuno. 
Poe la fa semplice: perché vi è l’equivoco che la complicazione formale sia forma di intelligenza. Toh? Guarda un po’. Ma vuoi vedere che i “modelli” alla base della disciplina delle costruzioni in cui tanto confidiamo, dai corsi universitari ai calcoli famigerati da presentare al Genio Civile,  fossero solo complicazione? Formalismi? Complicazione formale e basta?
La complicazione formale, dice Poe, rimane tale. Non solo. Ma un'intelligenza che si perda  nelle spire della complicazione e dei suoi sofismi,  rischia di porsi troppo vicino alla cosa che  studia. Conseguenza di ciò? Si perde la visione d’assieme. Si corre il rischio di cui parla Bloch. Si apre quella “prossimità alle cose che fa diventare ciechi, stolti”.
Così il malfattore de La lettera rubata fotte l’investigatore di polizia perché nasconde la lettera che tutti cercano, arrivando anche a smantellare pavimento, mobili, cassetti segreti e trucchi nascosti, travi e intonaco, e la mette proprio lì, sul camino, davanti a tutti, infilata in un vecchia sacca, in bella vista, in una busta un po’ sporca,  sgualcita che ha tutta l’apparenza delle cose che stavano lì lì per essere gettate alle fiamme e che poi, per una dimenticanza, sono sopravvissute. Un rifiuto dimenticato che deve andare a finire nel camino. 
Come a dire che chi segue la logica, le regole, gli impianti costituiti, le procedure, i protocolli, le strade maestre del ragionamento, si rassegni, è destinato a fottersi.  E’ perdente per definizione. Il paradigma interpretativo muta e la sua vita si spegne. Non ci arriverà mai.
Eccola la prossimità che rende ciechi.
E quando Einstein sconvolge, agli inizi del Novecento tutti i paradigmi, il lessico - direbbe il caro buon Salvatore di Pasquale, non a caso architetto che ha scritto meglio e di più di tanti ingegneri di Scienza delle costruzioni, sconvolgendo il lessico matematico usuale   - della fisica classica newtoniana - e per questo chiede scusa al suo maestro anche se in uno spazio atopico dell’immaginazione e della cultura trasversa al tempo - che fa se non allontanarsi dai parametri usuali (e le complicazioni, i modelli  matematici, che descrivono uno spazio assoluto) per confutarne i principi?
Morale della favola: Poe è intellettuale straordinario e, come tutti i geni inascoltati e soli, è profondamente infelice e folle. Ma non per questo non ha ragione.
E’ il poeta del Never more, mai più, mai più. Dell’attimo isolato, solo, unico e sperduto, fragile e incommensurabilmente minimo, rispetto alla logica dell’universo che gli sfugge, come la vita, l’amore e l’occasione della felicità dalle mani. Per non tornare più. 
Ogni attimo si perde. Un never more che consuma  l’anima  in uno struggimento di infinita melanconia.
E mi commuove nella sua scientifica artisticità folle che disegna le vie dell’inconscio e delle sue paure, dei terrori che attanagliano il fondo della nostra anima e allo stesso tempo descrive, in un saggio luminoso e pazzesco, i confini e le regole dello spazio ascientifico della poesia, in quel lucidissimo suicidio dell’intelletto creativo che va sotto il nome di EUREKA.
Di questo abbiamo bisogno nelle nostre asfittiche aule universitarie, infagottate di modelli matematici stantii e stupidi. Oh, quanto stupida è la matematica rapportata ai misteri della realtà, dice Poe. 
Scambiare un formalismo stitico e rarefatto per verità e contrabbandarlo come modello per interpretare il mondo. Quale ingenuità! 
Non si tratta altro che di  pura illusione in attesa che accada qualcosa che smantelli tutto.
Eventualità che, ci si può scommettere, ritorna, nella spirale infinita della storia con estrema puntualità.
Noi, però, facciamo pagare uno scotto troppo grande all’intelligenza dei nostri giovani, soffocandoli con stereotipi intellettuali stantii e obsoleti. Tutti lo sanno. Gli unici a non essersene ancora accorti, perché troppo vicini da esser ciechi, son quelli che  insegnano la scienza e le sue procedure. 
Senza sapere che tutt’è tranne che certezza. Insieme di modelli che, in un tempo rapidissimo, diventano rarefatti e obsoleti. E ci lasciano in mano un pugno di mosche.

La collana "i classici" si arricchisce

 


di Giacomo Ricci

Altri ebook entrano a far parte della collana "i classici" di ArchigraficA Edizioni. Gli autori sono Luigi Capuana, Matilde Serao, Salvatore di Giacomo. 
Della Serao pubblichiamo Il paese di cuccagna, uno straordinario spaccato della vina a Napoli che ruotava attorno al gioco del lotto, mania, epidemia dei poverielli che, illusi di trovare una soluzione alle loro miserie, nel gioco del lotto, finivano per rimanere sempre più attaccati alla loro condizione precaria e disperata. 
Due raccolte di racconti brevi di Luigi Capuana, che indaga, è proprio il caso di dire, nelle regioni oscure dell'anima, in quei risvolti dove si celano gli aspetti inquietanti dell'essere umano, che rasentano la dannazione e l'autoannientamento. 
E,m infine, Salvatore di Giacomo che ci accompagna attraverso Napoli, la sua storia e il suo costume. 
Particolare importanza è quella del saggio Antiche taverne nel quale, Di Giacomo, infilandosi in antri bui dove regnano vini e cibi, parlando di cuochi e pietanze, in realtà attraversa le origini della lingua napolitana, il suo evolversi e il suo attardarsi nella descrizione delle debholezze dell'anima, delle sue passioni e di tutte quelle piccole inezie che rendono la vita sapida e di gusto. 
qui sotto i link ai file. 
Buona lettura.

 Luigi Capuana, Delitto ideale

 Luigi Capuana, Un vampiro

 Salvatore di Giacomo, Antiche taverne napolitane

 Salvatore di Giacomo, Mattinate napoletane

 Matilde Serao, Il paese di cuccagna






lunedì 3 settembre 2012

Ex libris - DRM (Digital Rights management)



di  Giacomo Ricci






Prima di tutto la mia mania. Quella di non sopportare i DRM.
So che rischio, forse, un’ incriminazione per aver violato i diritti d’autore. Ma io non credo di dire nulla di grave. Non mi sono appropriato di nulla. Ho comprato regolarmente il libro scaricandolo da un sito web autorizzato. Ma detesto le limitazioni. In particolare alla cultura.
Quindi la prima cosa che ho fatto è stato sproteggere l’e-book dai famigerati DRM.
I libri elettronici, secondo me,  dovrebbero essere una conquista di libertà vista la semplicità che c’è nella loro concezione. Chi ha pensato e creato un testo digitale  lo ha fatto, sono certo, nello stesso spirito di coloro che inventarono UNIX,  alle origini dei moderni sistemi operativi informatici, in preda a un vero e proprio  anelito di libertà. 
In ogni caso il racconto che Linus Torvalds fa della nascita del sistema Linux e del sistema GNU taglia la testa al toro e a qualsiasi fraintendimento di comodo. L'informatica nasce come esperienza di libertà, checché ne dicano e pensino i patron di Apple, Microsoft e così via. La voglia di condividere esperienze, sensazioni, cultura. Soprattutto parlare al di là dei limiti fisici. Questa è la rete.  Questa è, in soldoni, l’Information Tecnology.
E poi credo sia questa la prima molla che spinge qualcuno a lasciare su carta i suoi pensieri, il suo sentire, le sue impressioni. La voglia di comunicare parte da questo.
Per questo si scrive. Per passare ad altri i propri pensieri.
Ma allora, mi dico e non ho dubbio alcuno, c’è veramente dell’odioso nei DRM (Digital Rights Management, Gestione dei Diritti Digitali) cioè da parte di privati di limitare l’accesso, inchiappettare chi paga e vuole essere onesto e riconoscere il lavoro degli altri.
Spiego per chi non lo sa. Gli editori, e tra questi spiccano anche quelli italiani,  preoccupati dal fatto che un libro digitale possa essere distribuito all’infinito, hanno pensato che, limitandone l’uso a pochi dispositivi, la diffusione fosse impedita.
Niente di più falso, ovviamente. Con un programmino gratuito che si scarica dal web e l’aggiunta di un paio di plugin (operazione che, in tutto, richiede non più di 5 minuti per l’installazione) i DRM sono eliminati e la copia è pronta per la diffusione, per la trasformazione da un formato all’altro, per la manipolazione.
Ciò che lo impedisce è soltanto la discrezione dell'operatore e gli scrupoli che si fa. 
E devo dire che ci sono molte cose che tentano in questa direzione.
Le elenco in breve:
1)   la voglia di trasgredire. Sempre presente, inutile farsi illusioni. Quando qualcuno mette in piedi un sistema di limitazione ci sono persone, come me, che si sentono oltraggiate e stimolate a trovare la soluzione, a raggirare l’inghippo. Nel web gli  hacker prolificano. E che uno sia un hacker non vuol dire che non abbia un'etica. Anzi.  Comunque, fatto l’inghippo, trovata la soluzione. Proprio un momento dopo.
2) la necessità di segnare la propria copia. Io firmo le mie copie cartacee. Ci metto un Ex libris (quello che vedete nell’immagine sopra) e la mia firma. Vecchia abitudine del bibliofilo, quella di segnare i libri della sua biblioteca. Feticcio? Mania? Può darsi. Inutile? No, nella maniera più assoluta. Si tratta di segnare, di incapsulare, di far proprio. E per uno  come me, aperto al bene comune, che ritiene l’appropriazione delle cose un furto ai danni della restante parte dell’umanità, l’unica appropriazione consentita è quella culturale. L’appropriazione culturale è crescita del proprio Io-intellettuale  e del proprio modo di stare al mondo, di sentirlo, percepirlo, rispettarlo, lasciarlo, per quanto possibile, così-come-è. Perché frutto di un processo di equilibri successivi durati tanto tempo, secoli, millenni. La domanda è: E chi sono io per modificare questi equilibri? Chi me ne dà l’autorizzazione? 
   Allora per un libro dotato di DRM segnare la propria copia non è possibile. Io lo apro, solo dopo averlo acquistato, con pochi passaggi ci aggiungo, nella seconda pagina il mio Ex libris che me lo fa sentire più mio, prima di leggerlo. La mia biblioteca digitale si allarga, proprio come quella cartacea. Segno la mia copia. Ne vado fiero. Lascio a qualcuno dopo di me il segno di quello che ho letto, delle idee che ho apprezzato. Anche tutto ciò, nel suo piccolo, è storia. Inutile? Forse. Ma fa parte di quelle illusioni che rendono la vita più accettabile.
3) La necessità di prestare il libro. Lo so, questa è una contraddizione. Ma io, in teoria,  posso passare infinite volte il mio testo di carta. A nessuno è mai venuta in testa l'idea depravata che potesse essere vietato, perché illegale.  Qual è la funzione delle biblioteche se non questa? E perché le biblioteche  di carta sono un’istituzione culturale da rispettare e quelle elettroniche no?  Perchè un bibliotecario è essere ammirevole e uno che duplica una copia elettronica, senza ricavarne un benefit economico,  è un ladro? Una questione forte, questa. Un paradosso, una contraddizione. Da risolvere sul piano concettuale, del diritto e della pratica dei comportamenti.
4) Il costo proibitivo. Una copia cartacea ha i suoi costi che derivano da una serie di voci: l’autore e il suo compenso, i lavoranti alla produzione del libro, editor, impaginatori, stampatori, rilegatori, ecc. E poi lo stoccaggio. E il trasporto e i grossisti e i librai, i commessi, il costo dei locali di esposizione, la luce elettrica, le vetrine, il cesso, il condizionamento, il riscaldamento, la donna delle pulizie, ecc. ecc., e poi la pubblicità ecc.  ecc. ecc. Come si vede la maggior parte di queste voci è eliminata. Quindi il prezzo dovrebbe scendere notevolmente, permettendo di pagar meglio l’autore, di aver un buon margine di guadagno per l’editore senza tante spese. E di far leggere più persone. Ci si aspetterebbe che il costo scendesse di molto. Manco per la testa. Un euro, due al massimo in meno. Che danno tanto l’impressione che lo si sia fatto per dare a vedere. Nulla più. Così  se la copia cartacea costa 17 euro, quella elettronica la trovate anche a 15 euro. Non un centesimo di meno. Scandaloso è dir poco. Cosa da spingere allo scarico pirata dalla rete. C’è poco da fare. Ognuno ci pensa. E magari lo fa.
5)  La questione della diffusione della cultura. E’ del tutto evidente che con quest’impostazione di mercato gli editori spariranno (e lo stanno già facendo),  vista la loro sostanziale inutilità e il rapporto diretto sarà tra l’autore e gli store di vendita accorsati sul web. C'è da aspettarsi una cosa del genere. Domanda: ma chi controllerà la qualità? Semplice. Dopo la prima buggeratura,  un autore sarà irrimediabilmente scartato dagli utenti. Il web è spietato.  Nei tempi lunghi, si autoregolerà. Dunque il vero controllore sarà il pubblico dei lettori. Oggi non è proprio così. Gli stili di scrittura sono decisi a tavolino, gli autori pure. Alla faccia della cultura e di tutto il resto. 

E nel frattempo? Nel frattempo io sproteggo le copie che ho regolarmente comprato. Per i classici poi mi rivolgo a organizzazione meritevoli come Liber e Liber che mettono a disposizione tutto il materiale libero da diritti d’autore e ... vado avanti con il progetto di ArchigraficA Edizioni che è rigorosamente no-profit per tutti gli autori emergenti che ne vorranno approfittare, per tutti quelli che vorranno aiutarci e nel ripubblicare, gratuitamente, tutti quei “classici” liberi da diritti d’autore. Epub, mobi, pdf e altri formati rigorosamente privi di qualsiasi forma di DRM.

Come dovrebbe organizzarsi il futuro? La mia proposta è molto semplice. Eliminare in tutti quei casi che sia possibile il libro di carta. Costruire lettori e-reader dotati dei migliori requisiti di leggibilità a costi concorrenziali, e incaricare le Università e le scuole di metter su biblioteche digitali per i loro utenti e per la collettività.
Questo senza nulla togliere o sminuire alle biblioteche tradizionali di libri cartacei.
Si dovrebbe trattare di biblioteche generaliste e specializzate. Riguardanti, cioè, i nuclei disciplinari di compentenza. I professori, per far carriera, dovrebbero contribuire al miglioramento e al progresso del sapere, anche sotto forma digitale.
Sarebbe un po’ come un ritorno alle origini, al significato primitivo, principale ed elementare delle Università, della loro funzione e del loro senso istituzionale.
Così il lavoro di ogni professore, il suo contributo scientifico diviene concettualmente ma anche immediatamente di dominio pubblico. E dunque pubblicamente controllabile dalla comunità scientifica, dagli studenti e da chiunque sia interessato.
Intrigante, no?
Come si pagano gli autori e le Università? Gli autori sono professori già pagati dallo stato. Dovrà essere un loro obbligo (morale) quello di metter su “carta digitale” le loro idee e i concetti che insegnano. Così come già fanno. I soldi della “ricerca”, finora profusi a pioggia e molto spesso gettati via, possono ampiamente essere riutilizzati allo scopo. Anche con notevole risparmio, visto che la pubblicazione digitale, per tutto quello che dicevo prima, è infinitamente più economica e immediatamente disponibile all over the world, come si dice. E non finire, come spesso ho visto in Dipartimento, alla Facoltà di Architettura di  Pescara,  in scatoloni gettati nello sgabuzzino di servizio che presto si riempiono di polvere e altro. Gli autori sono pagati dai lettori a un prezzo decisamente conveniente per copia. Non più di 0.99 centesimi. Un prezzo equo.
Io sono convinto che tutti andranno in attivo. Ciascuno paga volentieri il suo autore una cifra di un euro.
Per quanto riguarda la narrativa, il discorso è simile. Se l’autore è bravo e,  come Faletti, è capace di vendere 1.ooo.ooo di copie, come si dice abbia fatto Io uccido, il guadagno sarebbe proprio non c’è male. E tutti sarebbero ben disposti a pagare così poco un autore che dà loro svago e impegno intellettuale.
Io, ad esempio,  pagherei molto volentieri Camilleri, Erri de Luca e qualche altro. Mi costerebbero, per tutta la loro produzione, non più di sessanta, settanta euro complessivamente, per un cambio di tantissimi libri. Avrei da leggere per più di un anno a tempo pieno. E se fossero, come sono, molto di più di 100.000 i fan dei due scrittori,  fatevi un po’ il conto dei guadagni.
Il rapporto diretto autore-lettore, così vivo e vivace all’interno del testo quando lo scrittore è bravo, sarebbe ancor più vivo sul piano economico con il piacere e la soddisfazione di tutti.
Tranne dei veri furbi, che in questo momento, mi spiace dirlo, sembrano alcuni editori e gli inventori del DRM. Questi sì, assolutamente da deprecare. Ma come ho detto i loro sono i veri costi inutili. Basta un po’ di ingegno per aggirare le loro misere  protezioni. Dunque davvero soldi gettati al vento.