Caro Nicola,
più che fare una recensione vorrei raccontarti, in una
specie di mail-lettera, quello che il tuo libro ha suscitato in me.
E’ stato una sorpresa. Non per le foto che mi aspettavo così
belle e intense, perché conoscevo già la tua bravura di fotografo da quello che
pubblichi sul web. Ma perché si tratta di un libro che viene da un altro tempo.
Un tempo che quelli della nostra generazione sentono proprio
e a un passo da noi. Un tempo lungo, che ha attraversato la storia di noi
uomini del sud, per centinaia di anni ed è rimasto immutato.
Un tempo fatto di occhi profondi e neri, corpi nascosti da
abiti neri con facce segnate da espressioni intensissime di coro greco, di
commento alla storia dell’eroe che segue il suo destino. Di corpi e di mani che
sembrano architetture per i solchi, le vene, le macchie, le rughe che segnano
la pelle come le montagne segnano le valli. Di architetture rugose ed
espressive come corpi che si abbarbicano
a un’altura e sovrastano una valle piena di campi. Di semplicità dei gesti,
delle espressioni e delle mani che segnano l’aria. Di un mondo che, come dici, tu
consegni a chi vuole intendere, a chi sa cogliere e abbia voglia di sentire nel profondo, al di
sotto della pelle, nelle pieghe dell’anima.
Il futuro ha un cuore
antico mi verrebbe di dire. Una frase di Carlo Levi che è forse l’unico del
nord ad aver capito profondamente il sud d’Italia.
Ma non è più così.
Perché questo mondo che le tue foto dipingono con
straordinaria acutezza e profondità è passato. Non c’è più.
Il “progresso”, ma sarebbe meglio dire, l’omologazione, la
globalizzazione, l’era delle TV spazzatura, i media di schifo, la pubblicità
sopra tutto, il “contemporaneo” con il suo orrore senza senso, insomma, l’hanno
spazzato via. E non ne hanno cancellato solo la forma ma anche quell’insieme di
valori, quell’equilibrio profondo e sostanziale che gli uomini avevano
costruito tra sé, le loro architetture e la terra, la madre terra che dava loro
da vivere.
Vita difficile, dura
come emerge dagli sguardi e dalle mani dei vecchi che la tua macchina ha
colto, ma che era fatta di un esemplare equilibrio tra le cose, i sentimenti e
il costruito in cui tutto era alloggiato.
Così le pietre, i tetti di Orsara con la loro tessitura
scolpita nel chiaroscuro di tegole armonizzate l’una all’altra, gli archi
nascosti, le strette vie innevate e le figure lontane che camminano lentamente,
la piazza, la festa, gli ottoni della banda, le persone sedute sui gradini in
piazza, le mani che lavorano, le botteghe, rimangono nelle tue foto come
reperti, testimonianze di un tempo che non c’è più, frammenti e residui, icone
e segni di un’archeologia di un’anima sparita per sempre.
Un’anima che sopravvive nei nostri ricordi, nella
persistenza della memoria che, nonostante tutto, non s’arrende, non molla.
Crede e spera che il futuro debba avere ancora un cuore antico.
Ma temo che non sia più così.
Quando vedo la follia collettiva di intere folle concentrate
sui loro cellulari a scovare chissà che cosa, senza guardarsi attorno senza
cogliere minimamente le fattezze dello spazio che li circonda, quando vedo
l’orrido linguaggio del cemento che ha divorato, nello spazio di non più di
cinquant’anni, ogni segno del passato, quando mi rendo conto che i vecchi sono,
per questa folle società dei consumi a tutti i costi, una zavorra da gettare
via, da richiudere in maledette case di cura, mentre invece in quel mondo che
tu hai ritratto, sono il centro del senso e dell’attività, mi si chiude il
cuore.
I vecchi sono, nel mondo che tu ci consegni, quasi sempre
con i bambini.
E una cifra di lettura quella che tu ci mostri. Le
generazioni più anziane, nel corso del tempo, sono sempre state accanto a
quelle più giovani. Per una profondissima trasmissione di esperienze e
interpretazione dello stare nel mondo. Così l’inizio e la fine della vita
dell’uomo finiscono per congiungersi in una semplicissima e mirabile chiusura
di senso e significato. Si nasce, cresce e muore in armonia con le pietre delle
costruzioni che ci accolgono, con la natura che ci restituisce il duro lavoro
con i suoi preziosi frutti, in un ambiente pulito, ordinato, dove ogni cosa ha
il suo posto e c’è un posto per ogni cosa.
E questo le tue foto lo raccontano senza equivoci. Un
racconto che viaggia sereno e raggiunge il cuore di ognuno di noi che ha cara
la sorte degli uomini e delle loro storie.
E lo fanno ancor più in maniera magistrale perché sono il
prodotto di una fotografia analogica, come si deve dire con termini
contemporanei, fatta di pellicola, esposimetro, sensibilità e grana di
contrasto della stampa su carta. Una fotografia artigianale-artistica anch’essa
sparita.
Non a caso il fotografo in anteprima della tua storia per
immagini, usa una macchina su cavalletto e panno. Un fotografo anonimo di altri
tempi che sei tu con il tuo cuore antico.
Quegli orrori, quelle scatolette “smart”, che tutti guardano
servono anche a fare foto, in quantità smisurata, senza pensare, senza averne
la capacità. Tutti fotografano, con immediatezza. Ma la grande quantità di
immagini non racconta nulla, se non stupidi selfie inconsistenti e senza significato
alcuno.
Grazie per questo tuo mirabile lavoro, Nicola. Se ci fosse
un aggettivo supersuperlativo lo adopererei per qualificare il tuo impegno nel
tempo, la passione per il tuo paese, i tuoi vecchi, la tua storia, le tue case.
Il tuo mondo antico. Il nostro mondo antico e pieno di significato
che noi vorremmo, in un’improbabile utopia di un ritorno indietro, riemergesse
armonizzato con il meglio della tecnologia soft, per un’umanità più giusta,
meno crudele, più bella e tollerante.