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ebook di ArchigraficA

mercoledì 10 agosto 2016

Consegna di un mondo


Caro Nicola,

più che fare una recensione vorrei raccontarti, in una specie di mail-lettera, quello che il tuo libro ha suscitato in me.
E’ stato una sorpresa. Non per le foto che mi aspettavo così belle e intense, perché conoscevo già la tua bravura di fotografo da quello che pubblichi sul web. Ma perché si tratta di un libro che viene da un altro tempo.
Un tempo che quelli della nostra generazione sentono proprio e a un passo da noi. Un tempo lungo, che ha attraversato la storia di noi uomini del sud, per centinaia di anni ed è rimasto immutato.
Un tempo fatto di occhi profondi e neri, corpi nascosti da abiti neri con facce segnate da espressioni intensissime di coro greco, di commento alla storia dell’eroe che segue il suo destino. Di corpi e di mani che sembrano architetture per i solchi, le vene, le macchie, le rughe che segnano la pelle come le montagne segnano le valli. Di architetture rugose ed espressive come corpi  che si abbarbicano a un’altura e sovrastano una valle piena di campi. Di semplicità dei gesti, delle espressioni e delle mani che segnano l’aria. Di un mondo che, come dici, tu consegni a chi vuole intendere, a chi sa cogliere e  abbia voglia di sentire nel profondo, al di sotto della pelle, nelle pieghe dell’anima.
Il futuro ha un cuore antico mi verrebbe di dire. Una frase di Carlo Levi che è forse l’unico del nord ad aver capito profondamente il sud d’Italia.
Ma non è più così.
Perché questo mondo che le tue foto dipingono con straordinaria acutezza e profondità è passato. Non c’è più.
Il “progresso”, ma sarebbe meglio dire, l’omologazione, la globalizzazione, l’era delle TV spazzatura, i media di schifo, la pubblicità sopra tutto, il “contemporaneo” con il suo orrore senza senso, insomma, l’hanno spazzato via. E non ne hanno cancellato solo la forma ma anche quell’insieme di valori, quell’equilibrio profondo e sostanziale che gli uomini avevano costruito tra sé, le loro architetture e la terra, la madre terra che dava loro da vivere.
Vita difficile, dura  come emerge dagli sguardi e dalle mani dei vecchi che la tua macchina ha colto, ma che era fatta di un esemplare equilibrio tra le cose, i sentimenti e il costruito in cui tutto era alloggiato.
Così le pietre, i tetti di Orsara con la loro tessitura scolpita nel chiaroscuro di tegole armonizzate l’una all’altra, gli archi nascosti, le strette vie innevate e le figure lontane che camminano lentamente, la piazza, la festa, gli ottoni della banda, le persone sedute sui gradini in piazza, le mani che lavorano, le botteghe, rimangono nelle tue foto come reperti, testimonianze di un tempo che non c’è più, frammenti e residui, icone e segni di un’archeologia di un’anima sparita per sempre.
Un’anima che sopravvive nei nostri ricordi, nella persistenza della memoria che, nonostante tutto, non s’arrende, non molla. Crede e spera che il futuro debba avere ancora un cuore antico.
Ma temo che non sia più così.
Quando vedo la follia collettiva di intere folle concentrate sui loro cellulari a scovare chissà che cosa, senza guardarsi attorno senza cogliere minimamente le fattezze dello spazio che li circonda, quando vedo l’orrido linguaggio del cemento che ha divorato, nello spazio di non più di cinquant’anni, ogni segno del passato, quando mi rendo conto che i vecchi sono, per questa folle società dei consumi a tutti i costi, una zavorra da gettare via, da richiudere in maledette case di cura, mentre invece in quel mondo che tu hai ritratto, sono il centro del senso e dell’attività, mi si chiude il cuore.
I vecchi sono, nel mondo che tu ci consegni, quasi sempre con i bambini.
E una cifra di lettura quella che tu ci mostri. Le generazioni più anziane, nel corso del tempo, sono sempre state accanto a quelle più giovani. Per una profondissima trasmissione di esperienze e interpretazione dello stare nel mondo. Così l’inizio e la fine della vita dell’uomo finiscono per congiungersi in una semplicissima e mirabile chiusura di senso e significato. Si nasce, cresce e muore in armonia con le pietre delle costruzioni che ci accolgono, con la natura che ci restituisce il duro lavoro con i suoi preziosi frutti, in un ambiente pulito, ordinato, dove ogni cosa ha il suo posto e c’è un posto per ogni cosa.
E questo le tue foto lo raccontano senza equivoci. Un racconto che viaggia sereno e raggiunge il cuore di ognuno di noi che ha cara la sorte degli uomini e delle loro storie.
E lo fanno ancor più in maniera magistrale perché sono il prodotto di una fotografia analogica, come si deve dire con termini contemporanei, fatta di pellicola, esposimetro, sensibilità e grana di contrasto della stampa su carta. Una fotografia artigianale-artistica anch’essa sparita.
Non a caso il fotografo in anteprima della tua storia per immagini, usa una macchina su cavalletto e panno. Un fotografo anonimo di altri tempi che sei tu con il tuo cuore antico.
Quegli orrori, quelle scatolette “smart”, che tutti guardano servono anche a fare foto, in quantità smisurata, senza pensare, senza averne la capacità. Tutti fotografano, con immediatezza. Ma la grande quantità di immagini non racconta nulla, se non stupidi selfie inconsistenti e senza significato alcuno.
Grazie per questo tuo mirabile lavoro, Nicola. Se ci fosse un aggettivo supersuperlativo lo adopererei per qualificare il tuo impegno nel tempo, la passione per il tuo paese, i tuoi vecchi, la tua storia, le tue case.

Il tuo mondo antico. Il nostro mondo antico e pieno di significato che noi vorremmo, in un’improbabile utopia di un ritorno indietro, riemergesse armonizzato con il meglio della tecnologia soft, per un’umanità più giusta, meno crudele, più bella e tollerante.

venerdì 8 luglio 2016

Sognatori


Cose da sognatori

Svolgo, da due anni, nella Facoltà di Architettura della “Fedrico II” di Napoli, un corso di “Letteratura Disegnata”.
Espressione non mia, ovviamente, ma di Hugo Pratt che, non so bene quanti anni fa, quando qualcuno gli chiese che tipo di fumetto disegnasse, rispose, calcando un po’ la mano, che la sua non era opera di fumetto , bensì Letteratura disegnata.
Con questo Pratt ci tenne a sottolineare che il lavoro del disegnatore a fumetti non è quello del disegno e basta ma un vero e proprio impegno narrativo.
In questo senso il mio è un corso di Letteratura Disegnata perché vorrebbe insegnare agli allievi di architettura che hanno dimenticato, non per colpa loro, le regole elementari del disegno, l’uso della matita e l’osservazione dal vero della città e delle sue architetture, l’arte del disegno e, soprattutto, l’arte del raccontare per immagini.
Perché l’architettura è anche questo. Anzi, soprattutto questo. Con l’accentuare, in epoca moderna, soprattutto gli aspetti tecnologici e funzionali, si è perso di vista il gusto artistico dell’architettura, dell’ornato, dell’estetica.
Per meglio dire, le parole “ornato”, “estetica” e “arte” sono state allontanate dai discorsi di architettura per esserne definitivamente bandite come punti eversivi, pericolosi e fuorvianti.
Letteratura disegnata è racconto per immagini di luoghi, ambienti, personaggi, modi di sentire, pensieri, emozioni.
Dunque chi disegna per raccontare è, innanzitutto, un sognatore.
Anche questa definizione non è mia ma di Will Eisner, uno dei padri del fumetto moderno e soprattutto del Graphic Novel, del “romanzo grafico", del narrare per immagini.
Bellissima la definizione di Eisner di sognatore e di sogno. La riporto così come lui l'ha scritta perché non potrei far meglio:
“Nel migliore dei casi” scrive Eisner nell’introduzione a quella che è, a parere mio, la sua storia a fumetti più bella e complessa che abbia scritto, “la società tende a tollerare i propri sognatori. I sognatori viaggiano nella vita con un ritmo tutto loro. Prendono decisioni o sposano cause che spesso appaiono ingenue e confondono gli individui pragmatici, i quali – in ultima analisi – prosperano su occasioni nate dalla fantasia e dall’immaginazione”.
Ecco in sintesi il senso del mio lavoro. L’arte e il sogno al servizio del pensiero per sposare cause spesso ingenue (ritenute tali) e antipragmatiche: come la difesa degli animali, l’amore per la natura e gli alberi, la difesa del più piccolo alberello spontaneo dal cemento e dall’arroganza dei costruttori, la difesa dell’ambiente, la lotta all’inquinamento, la voglia di un mondo politico pulito e meno corrotto, il sogno di un’umanità serena e felice.
Ecco. Riportare questi temi onirici all’interno delle facoltà di architettura “moderne” e tecnologiche è un sogno.
Quello che io ho abbracciato.
Queste parole sono dirette a tutti gli allievi di questi due anni che hanno condiviso questi sogni, sono stati a sentire e osservare come nasce un “pupazziello”, come lo si fa muovere, come si disegnano le mani e le gambe, come si usa la tecnologia per rendere espressivi gli occhi e trasparenti le pupille.
E come tutto questo serva per rendere il mondo meno sporco, corrotto e più felice. Come se fossimo dei bambini, tornati a quello stadio di purezza che rende il mondo giusto.
E io non posso che ringraziarli della loro attenzione.

domenica 2 agosto 2015

Un ponte nel mezzo



Una storia dimenticata, quasi una favola quella raccontata da Mario Pagliaro.
Il ponte della Valle di Durazzano, un libro su un monumento "dimenticato".


per scaricare click sul link:

di Giacomo Ricci


«Venezia, simile a Tiro per perfezione di bellezza, ma inferiore per durata di dominio, giace ancora dinanzi ai nostri sguardi come era nel periodo finale della sua decadenza: un fantasma sulle sabbie del mare, così debole, così silenziosa, così spoglia di tutto all’infuori della sua bellezza…»
John Ruskin
Favola, la definisce il suo autore. Effettivamente, nella storia del ponte di Durazzano, gli elementi ci sono tutti. Il luogo, l’opera grande, il tempo e la sua damnatio memoriae, il grande artista (ma anche esperto ingegnere), l’antagonista potente e le sue oscure ragioni e, soprattutto, come in ogni favola che si rispetti, l’incipit classico che, come si ricorderà, suona pressappoco in questo modo: «C’era una volta un re che viveva in un magnifico paese…».
 Certo di favola si tratta ma anche di storia, quella che qualcuno magari si azzarderebbe a scrivere con la «S» maiuscola, visto che si tratta del lavoro dimenticato di un grande architetto per conto di un grande re, per una grande opera, e, infine, di un grande antagonista.
 E diciamo subito i nomi: Luigi Vanvitelli l’artista, Carlo III di Borbone il re, la reggia di Caserta il luogo e Bernardo Tanucci l’antagonista.
 Il ponte di cui ci parla Mario Pagliaro, autore del saggio che vi accingete a leggere, é quello di Durazzano, una delle tre grandi opere d’ingegneria che l’architetto progettò e realizzò, per dare corpo a un sogno, trasportare l’acqua dalle sorgenti del Fizzo, alle falde del Monte Taburno, attraversando valli e montagne, fino ad alimentare lo spettacolo magnifico di una reggia e del suo parco. E più che magnificare il signore che la volle, il re buono, come sempre si é chiamato dalle nostre parti, queste acque fresche e meravigliose che uscivano dalla fontana a monte del grande parco, finalmente sancivano la nascita di un potente stato del Sud, quel Regno delle due Sicilie, non più colonia, com’era stato per secoli di dominazione straniera, ma nazione autonoma e sovrana, splendida e straordinaria. Quella terra che Goethe ci invidiò e descrisse con calore e compiacenza.
 Splendida perché lo fu, magnifica per il significato che assunse nella penisola italiana degli inizi del Settecento.

E’ utile ricordare queste circostanze perché la damnatio memoriae di cui ho detto é stata ordita ad arte. Ma di questo dirò tra poco.
 La reggia di Caserta rimane, ancora oggi, a dispetto di tutto, la straordinaria testimonianza di un regno indipendente del Sud d’Italia.
 Quello Stato delle due Sicilie che fu uno dei più importanti dell’Europa del suo tempo e che, al contrario, ci é stato ricordato, fin dai primi giorni di scuola, come orrore, nazione arretrata e brutale, tanto da assimilare la parola «Borbone» (finanche nell’ufficialità dei dizionari di lingua italiana) a termini come «arretratezza», «barbarie», «ignoranza», «assolutismo».
 Oggi, per fortuna, di quest’operazione di mistificazione si sta venendo a capo e si fa spazio la consapevolezza che il Regno delle due Sicilie non fu diverso dagli altri stati nazionali europei come Inghilterra, Spagna e Francia. Napoli, sua capitale fu alla pari, per grandezza, popolazione e splendore, di altre come Parigi e Londra.
 E scusate se é poco.
 Poi ci sono state le guerre d’«indipendenza» e l’«unità» d’Italia. E tutto, come purtroppo sperimentiamo ogni giorno, ha preso una piega diversa. E ora sappiamo come l’Italia del Sud non abbia guadagnato lo status di nazione, ma sia stata ridotta, nuovamente a colonia interna che ha perduto una guerra.
 E si sa che, quando si perde, si deve pagare. In termini economici, di popolazione sottomessa e umiliata e soprattutto in termini di memoria. Chi perde é sempre distrutto soprattutto sotto il profilo culturale. La storia, insomma, come abbiamo imparato, la scrivono i vincitori.
 Ed ecco che la lotta viene condotta anche contro i simboli del passato potere. Così la reggia di Caserta, nata per fare concorrenza a Versailles, l’acquedotto che Vanvitelli costruì, tra i più importanti, in diretta concorrenza architettonico-progettuale con i romani, i più grandi ingegneri che la storia d’Occidente ricordi, é stato condannato all’incuria, all’abbandono, alla sua declassificazione da simbolo denso di significato a rudere di un passato da dimenticare.
 E’ in questa luce che si deve guardare a un giornalista come Giorgio Bocca che, in un’intervista televisiva, rilasciata poco prima di morire, parlando di Carlo III, non ebbe dubbi nel definirlo un «vero megalomane» (sue testuali parole) e che invece di spendere tanti soldi in un’opera di automagnificazione, avrebbe fatto meglio a costruire scuole, uffici postali, asili nido.
 Evidente la demagogia e anche la banalità provocatoria di affermazioni come queste. Ma ciò che a noi interessa é il metodo, quella della damnatio memoriae, per l’appunto. Distruggi il simbolo, mettilo in ridicolo, e avrai distrutto il significato che porta.
 Sennonché si tratta di luoghi e simboli, a dispetto di una certa «democrazia» basata sullo sviluppo del capitale del Nord ai danni del Sud, duri a morire. E colgo l’occasione per enfatizzare come quel capitale, costruito con l’apporto fondamentale dell’emigrazione interna di intere generazioni private del loro significato originario, una volta scoperta la mondializzazione, se ne sia fuggito altrove dall’Italia, fottendosene della nazione e del danaro che le ha munto negli anni passati. Altro che nazione, altro che unità. Il capitale persegue solo il suo fine, che é l’accumulazione e il profitto, a dispetto di qualsiasi altra ideologia.
 Ma i monumenti, quando sono tali per carica simbolica, artistica, culturale e politica che contengono, sono duri a morire. Nascono proprio per ricordare e ammonire e dunque sfidano il tempo e le opinioni transeunti dei giornalisti confusi, come Bocca.
 Si tratta di monumenti, come ci ricorda Pagliaro, che resistono agli attacchi del tempo, anche al massacro al quale la camorra ha sottoposto le terre del Casertano, trasformandole in inferno qui in terra. E anche qui ci sarebbe da riflettere per la localizzazione del potere mafioso e la sua stretta funzionalità alla nascita e alla prosperità (si fa per dire) della nazione Italia unita.
 I monumenti sono nati per lottare. E in questo generale processo di riconquista del significato i lavori come quello di Mario Pagliaro finiscono per affiancarli, sottolineandone la funzione e il senso, acquistando un ruolo di primaria importanza.
 Il saggio-fabula di Pagliaro ha un doppio merito.
 Quello della riappropriazione che il Sud sta compiendo della propria storia. Ma anche quello dell’analisi (dimenticata) del valore estetico di opere nate per puri scopi tecnici. E a quest’aspetto, Pagliaro, a ragione, tiene molto.

«Nell’atteggiamento che traspare nella storia del Carolino – scrive – si può rilevare come la popolarità, la mitizzazione, la garanzia della carica simbolica, siano state una conseguenza perseguita e diretta dal Regio Architetto attraverso il consapevole e continuo ricercare la creazione di momenti celebrativi. Episodi utili a permettere che la straordinarietà dell’opera non restasse “sepolta nelle viscere della terra”, bensì potesse rendersi evidente e con essa, i meriti del suo ideatore e la potenza dei suoi committenti »
 Ecco colto ed evidenziato, in termini semplici ed essenziali, il valore dell’opera d’ingegneria nel suo complesso. Il suo voler dare non soltanto soluzione a un problema pratico (superare un dislivello naturale per assicurare la continuità della pendenza dall’origine alla fine del percorso) ma anche ricordare il senso dell’opera, chi l’ha voluta e chi l’ha eseguita.
 Che poi, in sintesi, é sempre stato il vero scopo dell’architettura (e, più in generale, dell’arte), in tutta la sua lunga storia, fin dalle origini più remote. Ricordare gli uomini e dare corpo alla loro volontà di eternizzarsi. E, ricordando se stessi, dare visibilità all’intero popolo e alla civiltà che li ha generati.

I monumenti ci parlano di un popolo e della grandezza delle sue idee. Delle sue aspirazioni e dei suoi sogni.

Ecco dunque il senso della bellissima favola che Pagliaro ci racconta con la bravura di un saggista accorto e la perizia di uno smaliziato narratore, intervallando la storia con quella dei suoi protagonisti e dei luoghi interessati.
 Così anche il Ponte di Mezzo, di Durazzano, torna a vivere nella cornice del passato splendore. E il suo essere riconquistato in parte dalla natura che lo ricopre con le sue essenze e le sue erbe, si addolcisce di poetica malinconia.
 Quella che solo John Ruskin seppe leggere per primo nei monumenti del passato e nella loro lentissima marcia verso l’oblio. I lavori come quello di Pagliaro ci aiutano a tenerne memoria. A dispetto di tutte le guerre.

mercoledì 25 marzo 2015

Kobane calling

Copertina di Kobane Calling

qui andate a Giovanna Daffini che canta Bella Ciao



di Giacomo Ricci

Kobane calling di Zerocalcare alla fine mi ha commosso. Come mi commuoveva il canto di Giovanna Daffini, che nessuno delle generazioni più giovani si può ricordare, quando celebrava la resistenza, la passione politica, la lotta, il coraggio, accompagnandosi con la chitarra e seguita dal violino del marito Carpo.
Il racconto, disegnato con quel suo solito stile minimalista-postpunk, ti prende al cuore  e ti fa capire  oggi come persistano e si articolino l’impegno politico e la lotta per le idee.
Perché è un fumetto, ma sarebbe meglio dire un racconto, un’opera letteraria compiuta, per linguaggio e impegno, che riapre la passione politica, quando questa parola, qui da noi, è diventata sinonimo di strafottenza, faccia tosta, nefandezza, fellonia, opportunismo, ingordigia, voglia di accaparrare tutto l’accaparrabile. Perpetrando, forse, il furto più ignobile che si possa compiere contro i giovani, derubandoli di ogni forma di speranza, di ogni utopia praticabile che porti verso un futuro equo, ragionevole, sereno.
I segni di Michele Rech riaprono le ragioni profonde della passione politica, un bene del quale le giovani generazioni sembravano definitivamente spossessate.
Quella stessa passione che portava, noi del Sessantotto, da giovanissimi insieme a tanti altri, a cantare a squarciagola l’Internazionale:
«Su cantiam l’ideale
Nostra fede sarà
L’internazionale,
Futura umanità…»
Quell’inno che voleva unire popoli lontani per etnia, storia, tradizione, ma che diventavano una cosa sola, una compagine internazionale, per l’appunto, quando  scendevano in campo  contro ogni forma di oppressione e di barbarie.
La barbarie che uccide, decapita, stupra, flagella, mette in croce nel nome di un’assurdità che si chiama religione, ma che tale non è.
Giovanna Daffini cantava la libertà di un popolo contro l’oppressione nazifascista.  Michele Rech, alias Zerocalcare, canta, con il suo linguaggio di ragazzo della porta accanto, disinvolto, semplice, con segni grafici elementari e univoci, la libertà di un popolo, di un’idea che ci fa fratelli al di là del tempo, delle generazioni, della cultura e della geografia. Siamo noi di allora e loro di oggi a cantare assieme la “resistenza”.
Un’immagine emblematica chiude Kobane Calling, un primissimo piano di due occhi seri, accesi, determinati e una frase: «…Da qui non si passerà».
E questo ci fa capire che quei sentimenti non sono tramontati come ci vogliono far credere con le loro polpette di merda tv.
Zerocalcare, lo abbiamo imparato leggendo gli altri libri di cui è protagonista,  è personaggio che lotta nell’assurdità del quotidiano contemporaneo e tenta di infilare pezzi di significato nel vuoto che circonda le nuove generazioni, cioè di tutti coloro che sono stati scartati, fin dall’inizio, messi da parte, colpiti dal vero male della società moderna. Che è, come in pieno Ottocento, ricordiamocelo semmai ce lo fossimo dimenticati, l’accumulazione e l’ingordigia senza fine dei “capitalisti” contemporanei disposti a distruggere la vita, fagocitare in un sol morso tutto il pianeta, rendere in schiavitù i loro simili.
La lotta di Zerocalcare è piena di dubbi, riflessioni, vuoti, sbandamenti, ricordi, affetti, luoghi comuni, tutte cose, cioè, che entrano di diritto nel percorso di  formazione di un ragazzo quando cresce troppo in fretta, quando si pone domande su quello che gli accade attorno e cerca risposte comprensibili. E spesso non ne trova.
E questo ci accomuna.
E allora cantiamo ancora le parole de L’internazionale con Giovanna Daffini, a squarciagola. In modo che tutti possano sentire. In ogni angolo della terra.


Giovanna Daffini



sabato 21 marzo 2015

Perchè bisogna avere un taccuino



di Giacomo Ricci


Vi spiego perchè, secondo me,  è necessario, prima di ogni cosa, avere un blocchetto, un quadernetto e una penna (matita, fa lo stesso) in tasca. In ogni momento della vostra giornata. Sempre. 
Il taccuino vi deve entusiasmare per la sua forma, per il colore, la consistenza, per l'odore della sua carta, per il gusto di averlo tra le mani e in tasca. e poi la penna. Fate in modo che non sia una  penna ma la vostra penna, quella che vi accompagna, con la quale disegnate, appuntate, scrivete, mandate affanculo il mondo e tutti quelli che ci stanno sopra. Non sempre, naturalmente. Quando va fatto e ci sta.
Sempre in tasca la penna-matita. Attaccata al collo con uno spago. La vostra penna anche se si tratta di una sfera fetente o di un mozzone di matita. E' la vostra. Quelle che segna i vostri pensieri e le vostre sensazioni sulla carta. Nell'era digitale abbiamo bisogno ancora della carta e della matita. Il più grande Hard Disk possibile è la nostra fantasia. 

Perchè? In pochi punti vi sintetizzo il mio Punto di Vista (PdV).

A)     L’Originalità  nella costruzione di una storia non esiste.
B)     A volte quelle che sembrano delle stupidaggini  del momento, poi, a guardarle bene, rivelano la loro forza nascosta. Ogni idea sbuca non si sa da dove, fa la sua apparizione come un qualcosa di indesiderato, in momenti che uno non se l’aspetta. Poi va via e non ve ne ricordate più.  Ricordare Freud e la sua teoria degli atti mancati e delle affiorazione dal mare dell’inconscio? E' troppo chiamare in causa Freud? Forse. Ma serve.  Per questo motivo ogni idea  ha la sua forza che aspetta  sol di essere messa a fuoco. Io ci ho messo tantissimo a capirlo. Quasi tutta la vita. Oggi, i miei quaderni di appunti sono una costante che mi aiuta a trarre senso dalle mie azioni, dalle mie disperazioni (temporanee), dalle mie idee, da quelle che si potrebbero chiamare folgorazioni, solo se si mostrassero come tali. In realtà appaiono sempre in sordina, dimesse e poco appariscenti. Eppure…Eppure funzionano. Sempre che si sia attenti a capirle. A comprendere quello che ci vogliono dire. 
C)     Inutile il tentativo di farsi venire un’idea originale.  Tutta bella pronta, funzionante, confezionata con un nastro regalo. Non funziona così. Non verrà mai. Si mostra a spezzoni, a mozzichi. E poi se appare tutta assieme forse è perchè vi ricordate di qualcosa che avete gà visto e sentito. Qualcuno  l’ha già avuta, ha già fatto tutto quello che poteva per svilupparla e l’hanno fatto molto meglio di come voi potreste fare. E allora? Allora tanto vale copiare. Ma bisogna copiare in maniera “creativa” aggiungendoci qualcosa di nostro, modificando anche se solo un poco. Non sono io a dirlo ma Antonio Serra, sceneggiatore della Bonelli e, andando più in alto, nientedimeno che Glenn Gould, uno dei più famosi pianisti mai esistiti, un genio, compositore musicale, musicologo e teorico della musica. Abbiate fiduca. Hanno ragione loro. Ci hanno già pensato. E' il loro mestiere. E hanno capito bene dove stanno i nodi della questione.

D)    A volte, in stati di sconforto (come mi capita spesso) mi viene di dire che, forse, non ne vale proprio la pena di farsi venire idee perché, tanto, questa realtà che ci circonda non sa che farsene. Il nostro fallimento è già preordinato dal destino. 
        Ho naturalmente torto marcio. Perché se così fosse nessuno si farebbe venire un'idea, non esisterebbe Zerocalcare, non sarebbe esistito Hugo Pratt e ci saremmo privati di Corto Maltese. Riavvolgete il nastro e leggete gli spunti che avete segnato sul vostro taccuino. Lì c’è tutto. E se non c’è ancora ci sarà.

Bisogna avere pazienza. La nostra formazione è lenta, anche se le premesse sono tutte già dentro di noi. Un taccuino permette loro di fare capolino e non dimenticarcene.