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ebook di ArchigraficA

giovedì 8 gennaio 2015

Lettera a un amico

Masaniello

di Giacomo Ricci


Un mio caro amico, Maurizio Zenga, mi ha comunicato il suo profondo malessere di fronte alla morte di Pino Daniele, la polemica speciosa di alcuni pennivendoli nostrani e la furia selvaggia del terrorismo. 

La ragione oltre che generale, è nel suo caso evidente. Maurizio è un musicista napoletano che ha amato moltissimo Pino Daniele ed è un vignettista satirico. Il suo mondo è stato messo violentemente in discussione. 
Io ho capito poco di quello che ci succede, ma ho tentato di spiegarmi alcune cose e le ho scritte in una lettera di getto. 
La trascrivo perchè potrebbe essere utile a qualcuno. E qualcuno potrebbe anche chiarire alcuni punti oscuri del mio ragionare. Mi farebbe cosa gradita. Per questo la pubblico su archigrafica. 



Caro Maurizio,

nella chat di FB non sono riuscito a risponderti come avrei voluto. Sarà il mezzo, troppo costretto, che ti impedisce di andare a capo, che ti restringe in uno spazio limitato di schermo, sarà stata l’emozione che a poco alla volta ha preso anche me. Non sono riuscito a farlo.
Perché le domande che tu ti ponevi, sono un po’ quelle cui anch’io – ma credo tutti noi – tentavo di rispondere.
Il fatto è che non c’è risposta. Almeno non ce n’è una immediata, facile. Non c’è risposta per farsi capaci che Pino Daniele è morto. Non c’è risposta al fatto che tre balordi, in nome di una cazza di ideologia di merda che li fa peggio delle peggiori bestie che l’uomo abbia mai potuto immaginare, abbiano fatto strage di persone che erano armate solo della matita e dell’intelligenza.
Ma il gioco del mondo è spesso balordo, incomprensibile.
E’ tutto balordo, la fame, la miseria dei migranti, il terrorismo, qualcuno che, di tanto in tanto,  gioca a fare il primo ministro, il capitalismo che tenta di impossessarsi anche della proprietà della natura, del grano, delle sementi OGM, che noi non si capisca un cazzo di che cosa sia la vita che ci è piovuta addosso, non sappiamo che farcene e impazziamo di colpo tutto l’animo nostro.
Non ci sono parole. E messa così, la cosa è veramente incomprensibile.
Io non ero un fan sfegatato di Pino Daniele. Ma questo non fa storia perché quando lui era agli inizi, intorno alla metà degli anni Settanta, io odiavo Napoli. Odiavo la retorica, le canzonette, il folklore stereotipo, la folla, la plebe che  non sopportavo  per la sua ignoranza. Ero illuminato dal sol dell'avvenire, pretendevo la presa di coscienza. Chi non capiva e non aderiva alla lotta di classe apparteneva al Lumpenproletariat, sottoproletari, inaffidabili, balordi. Un’etichetta di appartenenza metteva a posto tutte le domande. L’ideologia mi aiutava a interpretare il mondo. Non capivo niente di niente. E’ ovvio.
Poi sono cresciuto. Anzi sono invecchiato, dentro prima di tutto, nell’anima. Poi anche nel corpo. E ho avuto un modo diverso di vedere le cose. Ho cominciato ad amare, in maniera incondizionata, viscerale, irrazionale la mia città. Apparentemente senza una ragione. Nel bene, ma soprattutto nel male. Ho cominciato a capirne le complesse motivazioni. Mi sono fatto una ragione per  la strafottenza, l’arroganza, per tutto quello che, insomma, caratterizza il napoletano plebeo. Anche alla camorra, pur non giustificandola, ci mancherebbe, ho trovato una ragione. Ho tentato di spiegarmene il perché.  Complesso entrare qui nel merito, per filo e per segno, spiegarsi  tutto. Ma mi sono state chiare tante cose. Mi sono fermato a riflettere.
E la domanda che mi rimane è una sola: che cosa vuol dire la morte? Che vuol dire il nostro sbatterci di fronte all’inevitabile? E’ inevitabile che moriremo, bene, male, consapevoli, inconsapevoli. Noi tutti moriremo. Morirà tutto. La vita, il pianeta, l’universo, i ricordi. Di noi, genere umano, della vita nel suo complesso su questa Terra non rimarrà più nulla. Figurati i soldi, le ricchezze! Stronzate.  Tutto sarà ingoiato in un enorme buco nero. Alla fine anche il nostro sole morirà e diventerà un gorgo immane, inghiottendo tutto quello che lo circonda, compresa la Terra, il sistema solare e tutto il resto.  Figurati che rimarrà di Marchionne, la Fiat, Renzi, la politica, l'euro, l'IVA, il profitto, gli interessi, la finanza, i furbetti e soprattutto dei nostri ricordi, dei sentimenti. Puff. Tutto svanito. E allora?
La risposta? Se uno non riesce a farsene una ragione religiosa vive male. Ecco. Ma per religione bisogna intendersi. Non quella barzelletta ipocrita che è sempre stata l’organizzazione mondana della chiesa.  Semmai qualcosa ribelle e salvifica come il francescanesimo, il rifiuto illuminante e straordinario di tutti i beni terreni che animò il nostro unico Francesco d’Assisi.
Per questo mi sembra che la risposta debba essere cercata nella mite convivenza di ognuno con tutti gli altri. La risposta sarebbe allora una sola: rispettare gli altri, sempre, in ogni caso, sentirne la vita e averne cura. Rispecchiarsi l'uno nell’altro.
E qui viene la tua domanda. Perché anche tu sei arrivato a questa conclusione. E quando senti Terra mia non puoi non commuoverti. E’ ovvio. Anche io, che credevo di essere tosto e corazzato di fronte a qualsiasi retorica, sentendo alcune canzoni di Pino Daniele, ora che è morto,  non ho potuto non commuovermi.
Perché tutta quella che sembrava retorica, la retorica di un cantante con la sua strana voce sottile, con quel suo seguire la musica con un semplice filo di voce quasi sempre in falsetto, la sua chitarra, diventa di colpo cosa sensata, con un significato che s’è interrotto.
Io ho scoperto Pino Daniele tardi. Credo non più tardi di una decina di anni fa. Si ne conoscevo le canzoni più importanti. Ma non ci uscivo pazzo. Comprai, non so perché, un cofanetto di tre CD e me lo piazzai in macchina. Andando avanti  e indietro da Pescara per il mio lavoro universitario, Pino assieme ai Blues Brothers e qualche canzone di John Lennon, mi faceva compagnia nelle quattro ore ad andare e quattro a venire che facevo da solo. 
Per le montagne. 
La sua voce mi accompagnava, mi faceva sentire meno solo, in specie quando scendeva il sole per le valli e le montagne e mi trovavo ad attraversare la piana delle Cinque miglia, interminabile. Così cominciai a riflettere su quelle parole, su quella musica all’inizio un po’ ostica, sulle contaminazioni che proponeva. E poi ho cominciato a cantarci appresso anche io. Prima sotto voce e poi, man mano, aumentando la voce, fino a cantare a squarciagola con lui. E’ diventato un amico. Ha riempito un qualche vuoto dell’anima mia, mi ha fatto gioire e immalinconire, allo stesso tempo.
Ecco. Pino Daniele era un amico anche se non come l’intendiamo di solito. Uno che ti fa compagnia. Come Troisi e il suo garbo. E a volte anche Benigni, quando non si cimenta con i comandamenti. Benigni de La tigre e la neve, insomma. 
E con le battute, i sorrisi, le canzoni forniscono una specie di risposta a quel quesito che prima ti dicevo. Noi siamo impauriti di fronte alla morte, alla vita e le sue incognite. Non sappiamo come comportarci. Non sappiamo che pensare.  Ma ci sono degli amici che, con il loro fare, le loro parole, e loro riflessioni, ci fanno compagnia, ci fanno sentire meno soli.
E credo che questo abbiano sentito i centocinquantamila a Piazza del Plebiscito. 
Una cosa mai vista. Una cosa unica. 
Nessuna città ha tributato un così grande affetto a un suo figlio. E non so che cosa sia stato più grande se il figlio o la città, che n’è riuscita trionfante, incomparabile, bellissima, unica al mondo. Non credo mai sia successo spontaneamente quello che è accaduto nel flashmob di due sere fa.
Mi ha commosso. Lo confesso e me ne fotto se qualcuno ci farà dell’ironia. Cazzi suoi.
Mai una città è convenuta a salutare un suo figlio lontano in questo modo. Anche se magari questo figlio sembra che si sia allontanato e non ne vuole sapere di tornare. 
Cadere nella retorica è facilissimo. Basta fare un passo falso e ci siamo. Ma, lo dico e me ne strafotto di caderci,  è come la madre che aspetta il figlio che s’è allontanato, e poi ritorna, dopo anni. Per lei lo spazio e il tempo non ci sono. Quando si tratta di quella sua creatura è sempre come quand’era piccolo. Napoli ha accolto Pino nel momento più difficile della vita di un uomo, quando questa si conclude, con un solo abbraccio. Lo ha abbracciato e apprezzato come sempre.
Unico. Le folle in maniera oceanica si sono raccolte, nella storia, per paura  nei confronti  di un tiranno, un aguzzino. Qui invece è successa in  maniera spontanea una cosa mai vista.
E mai vista era quella folla di persone che nel buio intonava le sue canzoni. Quelle più sinceramente sue, che avevano rappresentato l’anima forte e debole allo stesso tempo, sperduta, con gli occhi pieni di dolore, bassa, popolare di ognuno che si sente perseguitato. Quella che io considero il suo vero inno “Io so pazzo”, quel suo “Nun ce scassate o’ cazzo” che ognuno dei napoletani, quando si vede trattato male, perseguitato da uno Stato lontano, messo alla gogna immeritatamente perché considerato, razzisticamente inferiore, grida anche a denti stretti: “Nun ce scassate ‘o cazzo”. 
Nun ce scassate o cazzo.
Una frase che, a scriverla così, isolata dal contesto appare  volgare, aggressiva. Che dà fastidio.
Ma che Pino ha fatto in modo che tutti accettassero. Grande.
L'ha messa in una canzone, alla fine, dirompente, aggressiva, strafottente. E tutti, ma proprio tutti l'accettano, la cantano, l'ascoltano. Ha reso la rabbia di un singolo, sottoproletario, perseguitato, che si ribella, che lo Stato non può condannare perché lui ha il diritto di parlare ed esprimere il suo dissenso, e l'ha fatta accettare, digerire, l'ha resa normale agli occhi di tutti. 
La signora, il prete, il ragazzo, il professore universitario, il medico, il barone, il presidente del consiglio. Tutti, nella canzone, sono costretti ad accettare il dissenso, l'aggressività popolana quando ha le palle piene e vuole parlare. 
Straordinario. Ecco, questo per me è Pino Daniele. Questo è Pino per i centocinquantamila. 
Prole che tutta l’Italia, alla fine,  accetta. Perchè stanno  alla fine di una canzone protestartaria e a suo modo violenta, di Pino Daniele.
Che oggi è potente come lo sono le altre  «Napoli è carta sporca e ognun aspetta a sciorta». In tre parole tutto il fatalismo di antica memoria greca che ogni napoletano conseva dentro l'animo suo, è costretto ad accettare e esprime. Che fa il pari con quell'altra straordinaria espressione della NCCP che qui voglio ricordare: «Napule è comme 'a nu franfelliccoo, ognuno, vene, allicca e se ne va».
Che sintetizza secoli e secoli di dominazioni subite. 
Ecco tratti di genialità pura. Genialità tutta popolana, tutta napoletana. 
Pochissime parole che indicano i lati più tragici, più dolenti e autentici del popolo napoletano che si sente abbandonato da tutti. E l’abbandono e la disperazione sono stata una condizione permanente. Non dimentichiamo il Viceregno spagnolo duranto duecent’anni e l’annessione al nord che dura da oltre 150 anni.
Ma specialmente oggi, in questo Stato unitario truffatore e ingordo, imbroglione e malfattore. Perché una classe politica che non abbandona i suoi privilegi, rappresentanti dello stato che si fanno corrompere per il proprio tornaconto sono proprio quelli che Pino chiama in causa «E lo Stato oggi non mi deve condannare, perché io so pazzo, e oggi voglio parlare».
Parliamo. Parliamo con la musica tutti insieme in piazza. La più grande, pacifica, immensa rivoluzione che l'Italia si ricordi. E ne porteremo ricordo per tanto tempo a venire. 
Masaniello. Quale figura della storia non è stata più bistrattata di Masaniello? Benedetto Croce ha scritto un libro sui Lazzari e per primo, seguito a ruota da tutti gli storici beceri e codardi intellettualoidi fino ad oggi, ha sostenuto che Masaniello era un poveretto e che quei quattro ragazzotti armati di cannucce – i lazzaroni, per l’appunto –  non avevano alcuno spessore per fare una rivoluzione. Masaniello era poca cosa, la sua pazzia era scoppiata, poi,  perché incapace di reggere il confronto con la storia. 
Grande la stima che ho di Croce come studioso di cose napoletane. Ma questa, perdonatemi non posso digerirla. Qua lo studioso abbruzzese ha preso una sciuliata di mazzo a terra. Ma tu senti che puttanata! 
Il confronto con la storia farebbe impazzire il pescivendolo rivoluzionario napoletano. Così, di punto in bianco. Non lo terrorizza nella conduzione delle esecusioni capitali, nel suo giudicare la gente e gli oppressori. Non lo terrorizza nel confronto diretto con il Vicerè e il Cardinale. E poi lo fotte, all'improvviso, subito dopo, di dice, la cena a Posillipo su invito del vicerè. Mostrando segni inequivocabli da avvelenamento da alcaloidi che sono presenti in veleni ben conosciuti all'epoca, che venivano somministrati nel vino o nell'acqua. E pare che subto dopo aver bevuto un bicchiere 'acqua il poveretto abbia cominciato a smaniare e dare i numeri, n preda a un vero e proprio delirio allucinato. Un’invenzione che farebbe ridere, quella di Croce, se non si trattasse di un  tragico equivoco sminuente. 
Ancora oggi gli storici "universitari", i "cattedratici nostrani, impediscono, a chi fa ricerca in questo settore, di dire la verità. Non posso fare nomi, ma so di ricercatori seri ai quali è stato “suggerito” di non approfondire l’argomento avvelenamento di Masaniello perché la figuraccia dell’intero settore di ricerca sarebbe altrimenti veramente insostenibile. Qual è la verità? 
Che Masaniello fu avvelenato con una mistura a base di Belladonna e altre schifezze che sono dei veri e propri allucinogeni già ben noti da tempo, come scrive Della Porta nel suo Trattato sulla Scienza Naturale.
Pino Daniele ha toccato le corde nascoste del popolo napoletano. La sua emarginazione, la sua voglia di ribellarsi in solitudine, da solo, la sua voglia di mandare affanculo tutto e tutti.
Per questo Napoli è odiata. Per un potenziale non essere d'accordo, una resistenza forte, una non volontà di sottomissione. Per questo hanno fatto di tutto per allontanare dal popolo napoletano i suoi simboli, i suoi miti.
E per questo è straordinario quello che è successo. Alla faccia di tutti i pennivendoli di regime che dobbiamo sopportare ogni giorno nei media.
Quel cantante, con quella sua voce a volte un po’ querula, in falsetto, spinta al massimo della scala verso l’alto, ci ha fatto compagnia e ha fatto compagnia a tutti quelli che stavano in quella piazza. Cioè a una città intera.
E la cosa commovente che in tutto questo non c’era retorica. La nostra città, in questo, non è grande. E’ unica al mondo.
Allora i fili, in qualche modo si riannodano. Cioè si ritrova il mio amare i vicoli bui, le voci che chiamano i figli, le persone anziane che se ne stanno sedute fuori dai bassi a contemplare la vita che scorre su quei basoli di pietra lavica antica, i ragazzi che ridono. Ma ci sta anche l’indisponenza, l’arroganza di qualcuno. Fa parte del gioco. Essere guappo è una risposta del poverocristo all’arroganza dei potenti.
Una delle canzoni che più ho amato di Pino è quella che comincia con “Te veco quanno scinne e scale”. Perché è una scena che si ripete sempre nei palazzi dei Quartieri, è una scena che ognuno di noi ha vissuto, ogni ragazzo adolescente ha vissuto vedendo una ragazza semplice e fresca, che si affaccia alla vita che scende le scale.
Perché Pino Daniele  ha sentito, dentro di sé, l’anima profonda e popolare di questa città. 
Ti ho detto che ho iniziato ad amarla con il tempo. Ne ho amato soprattutto la lettura che ne hanno dato alcuni scrittori come Malaparte. Cialtrone, imbroglione, furbo, ha però capito, da persona intelligente, l’animo popolare di Napoli e l’ha descritto in maniera straordinaria ne La pelle.
Come l'ha descritta senza precedenti Nanni Loy ne Le quattro giornate di Napoli.
Bisogna capire anche la plebe napoletana. Quella plebaglia di origine seicentesca che fa paura e che è la ragione per cui tutti ci disprezzano. Sanno che c’è un’anima ribelle nel profondo, inaffidabile, almeno secondo il loro concetto di ordine, che ancora ribolle, che ancora non se ne sta al posto suo.
Quell’anima lazzara e potente che fa paura a tutti perché dal suo corpo, può nascere l’amore per Pino Daniele, ma anche l’esaltazione di Lauro, seguire il re Borbone, spiazzando e sterminando i quattro borghesi e aristocratici e la loro rivoluzione del 99.
E questo argomento è ancora un vero e proprio tabù. Con gli intellettuali napoletani non puoi dire che il popolo era per il Re perché il re era uno di loro. E che gli intellettuali del ’99 in realtà, più che una rivoluzione, stavano effettuando un cambio di dominazione passando il potere nelle mani dei Francesi, come realmente accadde. Leggersi, a questo proposito,  il passaggio delle proprietà che venne effettuato da Murat che consegnò terre, poderi, conventi e altro a tutti gli scagnozzi amici suoi è estremamente istruttivo in questo senso.
Il fatto che tutti questi nodi del popolo napoletano sono completamente irrisolti. Sono messi da parte. Come Croce sminuisce Masaniello e la portata della sua ribellione, così, dopo la cosiddetta unità d’Italia, vengono disprezzati i patrioti, i combattenti e le lotte che fecero contro l’arroganza dei piemontesi, col chiamarli briganti.
Il popolo napoletano in sé non è crudele, reazionario, ribelle, assassino. Ma in certe occasioni può esserlo, come ad esempio nel caso della morte dell’eletto Starace. Lo fecero a pezzi.
E’ una furia.
E’ questo che fa paura e fa essere gli altri razzisti nei confronti di Napoli. Anche se sempre più spesso mi sembrano delle vere e proprie  pruderie da condominio, di uno dell’ultimo piano in una riunione che chiama lazzari quelli che abitano nei bassi a piano terra.
Sono contraddizioni apparentemente complesse che però si capiscono subito. E Pino era uno che aveva intuito tutto per essere il tipico esponente popolano di questo tipo. Con il genio della musica. Con il ritmo nel sangue.
Veniamo alle vere bestie. L’isis, il califfato sono il vero pericolo. Sono una furia cieca e irrazionale che uccide chi gli si oppone. Bisogna difenderci.
Capisco che colpire chi fa una vignetta è come se ti avessero colpito direttamente al cuore. Ma la bestialità dell’uomo arriva anche a questo.
So che ho le idee confuse. E chi è che non le ha in momenti come questi? Perché di fronte alla morte di una persona di famiglia (e Pino, nonostante il Pino di adesso non mi stesse tanto simpatico, lo era) e di fronte alla furia selvaggia che distrugge quello che non capisce o gli si oppone noi rimaniamo senza parole.
Dobbiamo farcene una ragione e continuare a produrre. Sperare che quest’anima bellissima della città di Napoli sia accettata e riconosciuta non come qualcosa che fa paura, ma come un bene prezioso e di civiltà. Le vere bestie che fanno paura sono altrove e sono pronte a colpirci nei valori più importanti che la nostra civiltà è riuscita a costruire.
Un abbraccio

Giacomo