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ebook di ArchigraficA

venerdì 19 dicembre 2014

Come ero bella!



di Claudio Cajati


Stamattina sono stata più del solito a guardarmi nello specchio del bagno. Cercavo di contare le rughe del viso: avevo la sensazione che fossero aumentate, nientemeno durante la notte. Alla mia età, ho più di cinquant’anni, uso varie creme anti-age, come si usa dire oggi, e moltissime mirate proprio a far sparire, o almeno a ridurre, le rughe. I risultati sono deludenti, sconfortanti. (La chirurgia estetica, poi, non l’ho mai presa in considerazione: non voglio diventare una maschera stirata che non può fare un sorriso naturale e assumere tutte le diverse espressioni del volto.)
Se chiedo a mio marito le sue impressioni in proposito, lui sta zitto come uno che valuta cosa gli conviene dire. Poi glissa e subito si affretta a squagliarsela. Se lo chiedo alle mie amiche, loro si sentono in dovere di tranquillizzarmi, mi dicono che le creme che uso sono portentose, tanto che le mie rughe stanno scomparendo. Pietose bugie che non mi sollevano.
Stretta fra il silenzio del marito e le bugie delle amiche, rimango sola con il mio problema. Lontana dagli specchi che non mi danno tregua. Atterrita all’idea che con il tempo andrà sempre peggio, e che il mio viso finirà per assomigliare a una terra arsa e fessurata. Vorrei allora romperli tutti gli specchi, nascondermi il volto come un’araba, anzi chiudermi in casa e non farmi più vedere da nessuno… Sciocchezze, bambinate, follie.
Il futuro è un gigante minaccioso e spietato. Devo rifugiarmi fra le braccia rassicuranti e benevole del passato. Quando ero giovane. Anzi quando, ragazza di diciotto anni, partecipai a Miss Italia. Arrivai seconda, a un’incollatura dalla vincitrice. Molti sostennero, spassionatamente, che era stata un’ingiustizia, che il titolo spettava a me. E già, ero proprio bella. Come ero bella!
Chiudo gli occhi per ritrovare nel buio quella sagoma snella e prosperosa, quel portamento solenne e grazioso, quella pelle liscia come pesca, quelle movenze e quel sorriso che incantavano gli uomini, allarmavano le donne. Ma è passato troppo tempo. Quella fresca allegra eccitante Giovanna non me la ricordo più bene. Nella mia mente è diventata una sagoma velata dai contorni indefiniti. Come attraverso gli occhi di un miope.
Allora mi precipito verso il mobiletto dove conservo gli album di fotografie. Ne tiro fuori quello della pubertà e della prima giovinezza. Lì ci sta pure la Giovanna quasi vincitrice a Miss Italia. Per la furia che mi ha preso, l’album mi cade per terra. E, come per miracolo, balza fuori proprio la foto della premiazione. Siamo in tre, allineate e apparentemente amiche. La vincitrice fra me e la terza. Non c’è dubbio, non c’è discussione: la più bella sono io. Sono più alta, più fine e al tempo stesso più seducente, sfoggio un sorriso malizioso che non è sforzato, ho occhi luminosi e felini, una chioma bionda vaporosa che mi scende sulle spalle, e sono perfetta nella postura sapiente come quella di una pin up.
Il mio obiettivo è stato da allora, per più di trent’anni, quello di rimanere bella. Contrapporre all’impietoso assalto del tempo uno stile di vita sano, rigorosamente controllato, forte della mia disperata ma tenace volontà. Nel cibo e nelle bibite ho evitato tutto quello che poteva danneggiarmi. Dieta mediterranea in piccole porzioni; niente superalcolici; birre e vini rossi di bassa gradazione, non più di un bicchiere al giorno; dolci nel senso di una pasta mignon soltanto la domenica, fritture di alici una volta al mese. E ogni mattina, immancabilmente, mi sono fatta un’ora tonda tonda di esercizi ginnici. Prima a casa, poi in palestra perché m’inorgogliva e mi stuzzicava esporre agli altri il mio corpo ancora perfetto, come un ambito trofeo. Tanto che molti uomini abbandonavano i loro attrezzi nella sezione maschi e venivano a spiarmi a bocca aperta.
Qualche anno dopo ho sentito che era venuto il momento di accasarmi. Fra la folla sterminata di pretendenti ho scelto Arturo: un tipo posato, quasi bello, ingegnere in un’importante industria, con un bello stipendio. Ma soprattutto un tipo remissivo con le donne, che mi dava l’idea di non poter contrastare i miei progetti estetici, anzi di potermi magari aiutare. Lui da solo era in grado di mantenere la famiglia, cioè me e lui e basta: io non avevo nessuna intenzione di rimanere incinta, non volevo sformarmi nemmeno per soli nove mesi. E poi immaginavo che anche dopo il parto non sarei stata come prima (mi sentivo male al solo pensiero della pancia che non voleva ritornare bella piatta). Arturo invece lo desiderava un figlio. Uno almeno. Però ci teneva, anche di più, che io rimanessi splendida, ammirata e invidiata. I nostri egoismi, solidali, fecero sì che nessun bambino venisse a interferire nel nostro consolidato trantran.
A questo punto la mia vita era confinata fra la casa, la palestra, i party e le passeggiate in cui potevo accogliere, come ribaditi omaggi, gli sguardi incantati e i commenti arditi degli uomini. Ero orgogliosa di me, ma non soddisfatta, tanto meno felice. Mi sentivo inutile. Volevo un lavoro, un lavoro che fosse adatto a me. Ecco, avrei voluto tentare la carriera dell’attrice o della presentatrice. Oltre che bella, ero spigliata, avevo buona memoria, faccia tosta. Potevo di sicuro bucare lo schermo. Ma mi faceva difetto una dote fondamentale in questo campo: la volontà, che permette di accettare ogni rinuncia e sacrificio pur di riuscire. Quella volontà che invece avevo in abbondanza se si trattava di difendere la mia bellezza.
Così sono rimasta casalinga. Una stupenda casalinga. Mi annoiavo, naturalmente. A poco serviva qualche canasta con le amiche, qualche party nell’ambiente dei colleghi di Arturo. Ero sempre ammirata, ma mese dopo mese perdevo colpi. Da bellissima diventai bella, poi una di cui si diceva che doveva essere stata bella. Per le strade gli sguardi degli uomini erano diventati fuggevoli, spenti, persi all’infinito. E non mi raggiungevano più quei commenti arditi e volgari che tanto avevo gradito un tempo. Arturo, da marito generoso senza fantasia, si ostinava a dire che ero, sempre e per sempre, splendida. Le amiche mi chiedevano se avevo fatto un patto con il diavolo, per me il tempo sembrava fermo. Sapevo bene che non era vero. Ne ebbi l’amara conferma in palestra: i maschi, che prima accorrevano per ammirarmi, adesso se ne restavano nel loro settore. Così un bel giorno, anzi un brutto giorno, in palestra non ci andai più.
Anche i party dove mi portava Arturo cambiarono. Prima ci trovavo anche piacenti giovani donne, che non potevano certo contendermi la palma della bellezza, ma facevano comunque la loro figura. Ora invece quelle ragazzotte, tanto più giovani di me, mi avrebbero messo in ombra, relegata in secondo piano. Perciò Arturo si industriò per portarmi in party dove c’erano soltanto donne della mia età o anche più mature. E in mezzo a queste, seppure con le mie crescenti rughe, continuavo a emergere. Era uno spettacolo, e io ne ero la protagonista, al centro di un’attenzione costante, quella eccitata degli uomini, quella irritata delle donne.

Ora non sto andando più nemmeno ai party. Mi sono relegata in casa e ho tolto tutti gli specchi. Arturo è rimasto sbigottito e solo il suo buon carattere gli ha impedito di farmi una partaccia. Cerco intanto di riempire in qualche modo le mie giornate. Provo nuove ricette, prese da un libro di cucina che va per la maggiore. Guardo la televisione dalle sei alle otto ore, come un’anziana rimbambita. Non telefono alle amiche e, se lo fanno loro, le sbrigo in pochi minuti, rifiuto le loro proposte di passeggiate e shopping e faccio capire che non ho voglia nemmeno che vengano a trovarmi. Nel mio autolesionistico isolamento invecchio più velocemente, le rughe proliferano, la pelle si guasta. Che resta più della mia bellezza?

È arrivato Carnevale. Mi ha sempre attirato molto, con i suoi colori, la sua frenesia, la sua anima scherzosa anche nella trasgressione. Così mi sono decisa a interrompere l’eremitaggio casalingo, a tentare un colpo di coda per emergere da questa abulia che ormai procede verso la depressione. Mi sono fermata davanti alla vetrina di un negozio con maschere originali e molto ben fatte. Sono entrata per chiedere chi ne fosse l’autore. “Signora, noi non siamo solo commercianti” ha precisato un commesso “le maschere le abbiamo fatte tutte noi…” Mi sono scusata e ho chiesto: “Ma fate anche maschere personalizzate, su commissione… per esempio, partendo da una fotografia?” Subito il commesso ha precisato: “Se la foto è chiara e abbastanza grande, almeno 10x15, si può fare…” Sono volata a casa, ho tirato fuori dall’album una foto mia, bella grande, di quando avevo meno di vent’anni. E sono tornata di corsa al negozio.
Dopo una settimana mi hanno chiamato. La maschera era pronta. Un brivido mi ha attraversato la schiena: era proprio il mio volto a quella età. Incredibile e stupendo. Mi è costata molto, ma ho pagato volentieri.
Le prime prove per vedere cosa succedeva se la indossavo, le ho fatte con Arturo e con le mie amiche. Arturo ha avuto un sobbalzo, ha fatto un sorriso sbilenco, poi è sbottato: “Ma sono scherzi da fare, questi? A volte mi sembri ancora una bambina. Questa tua fissazione per la bellezza è diventata un’ossessione… non lo sai che ti voglio bene comunque?” Le amiche mi hanno circondata, festeggiata, quasi portata in trionfo. E l’hanno voluta provare, a tutti i costi, anche loro.

Ho deciso. Adesso con la maschera uscirò. Mi presenterò a tutti, senza timori. Con lei sarò di nuovo bella. Come ero bella, e come lo sono di nuovo!