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ebook di ArchigraficA

giovedì 4 luglio 2013

Una generazione che "voleva cambiare il mondo"






di Giacomo Ricci


A volte gli avvenimenti della vita reale sembrano annichilirci. Sbatterci in una zona di sgomento dalla quale è difficile venir fuori.
Ma riflettendo sulla scomparsa di un gruppo di architetti cui personalmente ero molto legato, si trova anche il coraggio di riflettere.
Gaetana Cantone, Benedetto Gravagnuolo e Luciano Scotto erano tre amici. Tutti e tre, in questi ultimi tempi, ci hanno lasciati.
Amici profondi. Non perché o non tanto per la frequentazione che era, in questi ultimi anni, più rada e silenziosa.
Per la storia che ci legava e ci lega ancora.
Usavamo, nel parlare tra noi, nel nostro lavoro, nel fare riferimento a un gruppo di idee che ancora ci girano per la testa anche se nascoste e seppellite da un mondo che non ci piace, il termine generazione.
Generazione,  una parola, quasi magica e inafferrabile, che sembrava sempre sfuggirci, sapere un po’ di retorica e un po’ di vuoto.
E invece, di colpo, adesso,  me la sono trovata davanti in tutto il suo spessore, in tutto il suo significato.
Fabrizio Mangoni ha scritto a Luciano Scotto, ricordandolo:
“Volevamo cambiare il mondo e non ci siamo riusciti. Ma il mondo non è riuscito a cambiarci”.
Dice così una verità della nostra generazione. Identifica noi e l’epoca alla quale apparteniamo, siamo appartenuti.
La terra dalla quale tutti noi proveniamo.
Ci legava, ci lega ancora, ci legherà sempre, l’idea che avevamo tutti. Ognuno a modo suo. Ma ce l’avevamo tutti.
L’idea di cambiare il mondo.
Tutta una generazione di ragazzi, di giovincelli credevano che con le idee e la passione si può cambiare il mondo.
Ed ecco che vedo Benedetto Gravagnuolo a vent’anni.
E’ a fianco a me, seduto a un tavolo da disegno dell’aula 2, la grande aula con le colonne al secondo piano di Palazzo Gravina.
E’ primavera.
Di fronte a noi Riccardo Dalisi, assistente del professore Capobianco. Stiamo discutendo del progetto. E ci accaloriamo sul senso “collettivo” di alcuni spazi, del teatro, del fojer, della sala per la musica, del pubblico che, immaginiamo, vedrà la rappresentazione in quel complesso teatrale.
Tutto inventato: il complesso, il teatro la musica, i suonatori, il pubblico, le tensioni, le evoluzioni. Tutto tranne la nostra idea fissa: “cambiare il  mondo”.
Il progetto che faremo avrà la forza di cambiare il mondo.
Tutti noi ci crediamo. Anche Dalisi. Magari più di noi.
A quel tavolo stiamo discutendo di come fare, come procedere. Tutto avverrà come noi pensiamo debba succedere.
Come crediamo che in quella sala, con le nostre idee che inseguono quelle di Grotowsky, del Living Theatre, di Artaud, avverrà un cambiamento, le idee sconfiggeranno il valore venale della vita.
La vita cambierà e gli uomini saranno liberi.
E’ certo. E’ moneta suonante il nostro pensiero.
E ci accaloriamo per un dettaglio, per il colore del tendone.
“Rosso” dico io “come la bandiera del proletariato”.
“Troppo didascalico” dice Dalisi.
“Il rosso non è mai didascalico” controbatte  Benedetto.
E così via. Alle nostre chiacchiere si uniscono gli altri e a poco alla volta una generazione sogna.
Costruisce il suo sogno. 
Non siamo mai andati oltre il sogno.
Non ci sono andato io con i miei disegni allucinati.
Non c’è andato Benedetto con il suo lavoro rigoroso di storico. Neanche quando è diventato preside, molti anni dopo, di quella stessa Facoltà che l’ha visto giovane e ribelle.
Non ci  è andato Dalisi con le sue caffettiere, i suoi Pollicinielli di latta, le sue sedie di cartone e il lavoro con i ragazzi del Traiano.
Ma che resta di tutto questo?
Nulla. Forse.
Restano i residui del sogno. Che non sono cosa da poco.  
Come generazione, abbiamo, al di là delle nostre storie diverse, un’appartenenza comune. Per l’appunto una generazione come dice Fabrizio, che non ha "cambiato il mondo".
Un mondo che  se ne fotte di noi e ci vede andarcene uno dopo l’altro.
Ma “il mondo non ci ha cambiati”.
Ricordo di Benedetto le lunghe discussioni a casa mia a Baia, con Pasquale Belfiore e i racconti di fantasmi napoletani e di palazzi nascosti e “strani”.
Ricordo di Benedetto le sue parole quando ha presentato tante delle mie mostre. Sempre pronto a leggere disegni, a inventare, ad appoggiare gli sfreniesiamienti fantastici di uno della sua generazione.
Forse il ricordo di ognuno di noi si perderà. Anzi è certo.
Ma credo che non si perderà l’idea che abbiamo fatto parte di una generazione che non ha cambiato il mondo, ma che, nel cuore, non è stata modificata dal mondo.
Nonostante tutto, nonostante la storia. 
Anche nei momenti più difficili.
Il mondo non ci ha cambiati. 
Ciao Benedetto, compagno di cose serie e di sciocchezze. Siamo della stessa generazione.