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ebook di ArchigraficA

domenica 31 marzo 2013

Le carte a posto





Le carte a posto

 di Claudio Cajati


Io, Michele, e mia moglie, Arianna, siamo una vecchia coppia. Io 65, lei 62. Una coppia tranquilla, più volte collaudata, inossidabile. Ci siamo sempre voluti un gran bene e rispettati. Appena ogni tanto qualche baruffa: ma, come dice il proverbio, amor senza baruffa fa la muffa.
Così credevo.
All’improvviso, l’amara sorpresa.
Vado a raccontarla, cercando di rimanere sereno.
Fra i riti patologici del matrimonio o, più in generale, della convivenza, c’è quello di conservare in casa di tutto. Per anni e anni. In cassetti, ripostigli e angoli dimenticati. Alla rinfusa, senza altro criterio che quello dettato dalla smania di conservare (“Dovesse tornare utile, chissà...”). Così si formano stratificazioni profonde e indecifrabili, bisognose di scavi archeologici.
Nel nostro caso, si tratta soprattutto di carte: io sono scrittore, Arianna prof al liceo classico. La carta, le carte, ci hanno accompagnato per decenni. Fedeli, non avrebbero voluto lasciarci.
Ma l’altro giorno ho sentito l’urgenza di ribellarmi. Mi sono messo alacremente all’opera. Al grido di “Buttare, buttare, buttare!”
Però fra le carte obsolete e inutili si può sempre annidare invece qualcosa di prezioso. Occorre quindi spulciare con calma. Frenare e mitigare l’imperativo del ‘buttare’ con un’attenta calma disamina.
Ma c’è anche di più. Che me lo proponga coscientemente o meno, sono sempre alla ricerca di spunti narrativi. La mia inventiva, alla mia età, è ormai fiacca, devo ammettere.
E sono stato fortunato. Spulciando fra carte ingiallite, qualcuna ancora sporca di caffè o perfino di un residuo di miele o marmellata, ho trovato titoli promettenti. Chissà perché – come faccio ora a ricordarmelo? – rinunciai a tradurli in testi narrativi. Oppure mi sono capitati fra le mani racconti incompiuti. Adesso saprei come condurli al termine: è venuta meno la sfiducia e l’inesperienza che determinarono un abbandono.
Ci ho messo l’intera giornata a fare pulizia. Alla fine ho buttato più del novanta per cento delle carte cavate da vari anfratti della casa.
Ero stanco ma soddisfatto. Provavo il senso esaltante di una liberazione. E avevo rimediato alcune trame niente male, degne di sviluppo.
Arianna ha apprezzato molto il mio lavoro. Un complimento generoso e un largo sorriso. La sera tardi, ma non troppo tardi, ero quasi distrutto, perbacco, mentre andavamo a coricarci, lei mi ha detto: “Io sono pigra, lo sai, e poi le mie carte sono perfino più delle tue, ho conservato le cose più assurde, non so perché. Ci pensi tu a fare pulizia? Lo sai che mi fido. Del resto hai seguito passo passo la mia avventura di insegnante, sai quasi tutto quel che c’è da sapere...”
Ho accettato volentieri. E ci siamo addormentati subito, ancora immuni da insonnie senili, meno male.
La mattina seguente, anzi era ancora notte, sono saltato dal letto come una molla. E in pochi minuti ho raccolto, sul tavolo più grande che abbiamo, tutte le carte di Arianna.
(Forse un uomo non dovrebbe mettere le mani nelle carte di una donna, di una prof, e tanto meno di una che è sua moglie... ma io l’ho fatto, con una determinazione e una disinvoltura che mi hanno sorpreso.)
Quante porcherie che sarebbe stato ragionevole cestinare subito! E invece carte di dieci, perfino venti, trenta anni prima, inutili e prive del pur minimo requisito del ricordo prezioso: stavano lì, indifese davanti alle mie mani implacabili. Cestino, cestino, cestino.
Poi sono incappato nella brutta della lettera con cui Arianna comunicava al grande scrittore Jorge Messi l’intenzione di fare la tesi di laurea su di lui. E chiedeva di incontrarlo per un’intervista.
La risposta di Messi non l’ho trovata. Ma ricordo che lui l’intervista la concesse. E che fu il pezzo forte della tesi.
Ho messo da parte la lettera: ad Arianna poteva interessare conservarla. Le avrei chiesto conferma quando fosse tornata da scuola.
E ho continuato infaticabile l‘operazione cestino.
Quella che ora mi capitava fra le mani, ben custodita in una busta celestina appena sgualcita, era un’altra lettera. Questa pure in spagnolo. Ma con una grafia differente da quella di Arianna. Una grafia rotonda, imperiosa, fluida. Insomma, non era una lettera scritta da Arianna. Ma una lettera di Messi a lei.
Anche se il mio spagnolo è zoppicante, non ho avuto bisogno del vocabolario per capire. Lo slancio, l’entusiasmo, la passione delle frasi non lasciavano dubbi. Fra loro c’era stato molto più che un’intervista.
Poi altre lettere, continuando la mia cernita, mi capitavano fra le mani, a cascata. Lettere di lei a lui, di lui a lei. Non potevo dubitare: una lunga relazione fra loro. (Io, accidenti, ero riuscito a non accorgermi di niente. Che stupido, io e la mia benedetta letteratura...)

Ciò che state leggendo non vuole essere una confidenza o uno sfogo.
È l’annuncio di un racconto. Io sono e sarò, fino in fondo, scrittore. Condanna e riscatto.
Non ho detto niente ad Arianna. Non le ho detto che ho trovato il carteggio – chissà perché non l’ha distrutto. Non le ho detto il mio stupore, il mio sconcerto, la mia mortificazione, il mio dolore. Io che credevo che mi fosse sempre stata fedele, come le sono stato io, eppure ne ho avute occasioni...
Lei non sa niente. E non deve sapere niente. Mi sono sforzato di essere con lei uguale a sempre. Premuroso, affettuoso, educato.
Così ho trattenuto in me tutta l’energia. E subito ho deciso il da farsi. Dal carteggio cavare un racconto. Ma non posso scriverlo subito. Devo fare decantare rabbia e smarrimento.
Però penso che sarà un grande racconto, un piccolo capolavoro.
Non so, e non voglio saperlo naturalmente, quanto godette Arianna a letto con Jorge Messi. Ma dubito che possa aver goduto quanto, con la mia sapienza di scrittore, saprò far godere l’Arianna del mio racconto. La farò letteralmente impazzire di godimento. E i lettori, travolti dall’eccitazione, faticheranno a tenere le mani a posto.