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ebook di ArchigraficA

giovedì 29 novembre 2012

Eppure proprio tu

un nuovo smartphoneconto di Claudio Cajati





Eppure proprio tu

di Claudio Cajati

Ci siamo conosciuti sin da bambini. Abitavamo nello stesso viale, un viale corto e cieco, il viale Malatesta. Ci vivevano pochissime famiglie; le nostre in due villette contigue, vicinissime. La mia, una grande e bella casa; la tua, una casa piccola e modesta.
Dirimpettai, ci affacciavamo da due balconcini. E da lì potevamo guardarci quasi negli occhi, confidarci a bassa voce. Io, Ernesto, di famiglia benestante, spavaldo e carino; tu, Gilda, di famiglia proletaria, timida e bruttina.
C’era molto feeling fra noi. Ci piaceva un mondo scambiarci sfoghi, progetti, paure e speranze. Tu, mi ricordo, cercavi ogni tanto di portare l’argomento sul nostro futuro. Forse avresti voluto sentirmi dire che mi volevo fidanzare con una come te. Anzi proprio con te. E poi, da grandi, addirittura sposarti.
Ma tu eri bruttina, proprio bruttina. L’intesa fra noi si fermava davanti all’ingresso, per te sbarrato, del Regno della Bellezza. Allora io cercavo di cambiare argomento; tu capivi, incassavi, accettavi.
Ricordo che i miei genitori facevano ogni tanto discorsi in cui non lo si diceva chiaramente, ma lo si lasciava filtrare: uno carino come me poteva e doveva aspirare a sposare una carina. Anzi proprio una bella. E io ero d’accordo.
Così, superata la pubertà, mi sono messo alla ricerca di questa bella alla mia altezza. E, dopo molti flirt di brevissima durata, mi sono fidanzato con Barbara. Una belloccia sensuale e disinvolta, abbastanza sciocchina da farmi sentire intellettualmente dominante, perfino più intelligente di quel che sono e so di essere.
Io e Barbara eravamo entrambi studenti a Giurisprudenza. A seguire le lezioni sempre l’uno accanto all’altra. A me toccava spiegarle i molti argomenti che lei faticava a capire, o proprio non riusciva ad afferrare. A lei, dopo la mia paziente prolungata spiegazione, toccava ringraziarmi. Lo faceva senza parole, a modo suo: con la mano morbida, insinuante, scivolava furtiva fra le mie cosce. Uno scambio asimmetrico, per me molto piacevole. Lei mi andava bene così. Belloccia, sciocchina e disinibita. Non pensavo mai a un’alternativa.
In quegli anni in cui ero preso dagli studi universitari, mi capitava ogni tanto di incontrarti, Gilda. Con il tuo sguardo vivace e tenero, il tuo sorriso benevolo e malinconico, e sempre bruttina. Tu non avevi potuto permetterti l’università, e ti arrangiavi con vari lavoretti. Un tempo la differenza di classe sociale fra noi era praticamente ininfluente sulla nostra amicizia di ragazzi. Ora il divario pesava: tu commessa o colf senza prospettive di miglioramento, io studente universitario e futuro avvocato.
C’era ancora fra noi la pallida eco del nostro feeling d’un tempo. Ma era un’emozione fiacca, sempre più sbiadita, quasi amaramente patetica. Anche se tu – me ne rendevo ben conto nei nostri fugaci incontri – cercavi di rinverdirlo quel feeling con allusioni discrete che mi mettevano in imbarazzo. Combattuto com’ero fra passato e futuro. Il passato che ci aveva visti vicinissimi, il futuro che ci avrebbe allontanati sempre di più.

Quando mi sono laureato, ho subito aperto il mio battagliero studio di avvocato. Avevo bisogno di una segretaria, ovviamente. Barbara, ancora mia fidanzata, anche lei laureata e mia collaboratrice, l’ha voluta scegliere lei questa segretaria. O meglio, sceglierla lei dandomi però l’illusione di sceglierla io (uno stratagemma a cui ricorrete spesso, voi donne).
Barbara voleva innanzi tutto che fosse una brava ragazza bruttina; che fosse assolutamente improbabile che potesse piacermi. Ma al tempo stesso sapeva che doveva essere seria, competente, affidabile, puntuale.
Ebbene, questo non era forse il tuo identikit, Gilda?
Con grandi sacrifici ti eri intanto diplomata in ragioneria. Ed eri, ancora e sempre, una ragazza d’oro: riservata, precisa, scrupolosa. Ora lavoravi come contabile in un minimarket.
Io ebbi l’dea. La dissi a Barbara. Barbara subito, entusiasta, approvò.
Ti feci la proposta. Venire a lavorare come segretaria nel mio studio. Pensavo che ne saresti stata contenta, forse più che contenta: avresti fatto un lavoro di maggior prestigio. Avresti guadagnato di più. Ma soprattutto saresti stata a contatto con me: nella tua timidezza, non ti eri mai dichiarata – ma poi, non tocca agli uomini? – però io lo sapevo, da anni. Tu avevi una cotta per me. Sin dall’inizio, e mai ti era passata.
Di questo Barbara non si era curata. Almeno i primi tempi. Però si sa come siete voi donne. Sempre sospettose e vigili. E quindi allo studio Barbara presto ha cominciato a essere assidua. Non solo per offrirmi il massimo della collaborazione nelle pratiche legali – con scarsi risultati devo dire – ma anche per tenere d’occhio te. Vuoi vedere che la bruttina timida cova in seno una seduttiva spregiudicata?

Barbara ogni tanto, per quanto ce la metta tutta, mi combina qualche pasticcio, rischia di compromettere l’esito di cause anche importanti. Io devo correre ai ripari. E la cosa si svolge sotto il tuo sguardo attento, d’improvviso allusivo e meno prudente del solito. Come se volessi dire, anche se non lo dici: “Tu sei intelligente e bravo; lei, Barbara, è proprio sciocchina e incapace.” Nel tuo sorriso, al tempo stesso, ammirazione devota per me, sarcasmo sommesso per lei.
Gli eventi stanno precipitando. Si è prodotta un’accelerazione.
Barbara si trattiene più a lungo nello studio, cerca invano di dimostrare di essere brava, non perde occasione per sminuire il tuo lavoro, per metterti se possibile in cattiva luce, per alludere alla sua superiorità estetica.
Tu, Gilda, fai finta di non aver capito. E per contro, appena Barbara deve andare via, mi dimostri che non sei solo diplomata in ragioneria: pur senza studi universitari, stai imparando il mio mestiere. In un crescendo prodigioso.
Ma non è solo questo. Ieri, porgendomi una cartellina, mi hai toccato con la mano la mia mano. Sembrava casuale ma non l’hai ritirata subito. Ti ho lanciato uno sguardo interrogativo; il tuo era sereno, fermo, tenero, caldo.
Sono rimasto turbato. Chissà, forse non volevi, ma per qualche secondo mi hai fatto eccitare.

Oggi, alla fine di una giornata di lavoro micidiale, mi vedi stanco, che appoggio il volto fra le mani, piego il capo sulla scrivania per concedermi una pausa finalmente. Barbara intanto non c’è, è andata a fare il suo solito shopping.
Tu ti alzi. A passi lenti e leggeri, mi vieni alle spalle. Come se fosse un gesto familiare, mi poggi le mani sul collo. Tremano. È bello, è emozionante sentirle tremare. Accenni un massaggio ristoratore.
Mi giro verso di te, sorpreso e, al tempo stesso, grato. Ti sorrido smarrito. Tu rispondi con un sorriso ampio, radioso. Sorriso di devozione e seduzione.
Ti osservo e non mi sembri più bruttina. Dagli occhi ora splendidi ti cominciano a cadere lentamente lacrime di gioia. Sì, di gioia, perché lo sai, ormai lo sai quello che sto per dire. Quello che pazientemente hai saputo attendere e preparare.
Lo dico, senza sapere quello che dico: “Gilda, mi vuoi sposare?”






Claudio Cajati (Napoli, 1947), architetto, già ricercatore e docente alla Facoltà di Architettura di Napoli, animalista egattomane, ha pubblicato due romanzi per ragazzi, Testafina Pallina mia blu, i romanzi Le parole del corpo La convergenza, la raccolta di racconti In prima persona, e vari racconti fra cui quelli, intitolati Una monade in condominio, scritti a 4 mani con Lucilla Actilio. Nel 1992 ha vinto con “Look definitivi” il Premio Teramo per un racconto inedito (6 milioni di lire).

Per questa collana ha già pubblicato gli smartphoneconto n.1 Le formiche e n.2 San Giuseppe cuoco.




sabato 24 novembre 2012

A proposito di don Peppe Carafa


Una nota "piccante" di Gregorio Rubino sullo smartphoneconto di Giacomo Ricci, Una visita al museo


Domenico Gargiulo detto Micco Spadaro, La morte di don Peppe Carafa


di Gregorio Rubino

Per i numerosi crimini impuniti, Don Peppe Carafa, fratello del Duca di Maddaloni, era certamente fra i nobili napoletani più invisi nella rivolta di Masaniello (1647). Sfuggito alla ferocia popolare in Piazza Mercato e riparato precariamente in Santa Maria la Nova, fu più tardi agguantato e ucciso per strada durante un tentativo di fuga ed il tragico episodio rimase poi nel celebre quadro di Micco Spadaro, oggi a San Martino. La notizia della morte violenta del Carafa, suscitò “terrore”, dicono le cronache e sappiamo che l'anno seguente il “Praepositus generalis” della Compagnia di Gesù, Vincenzo Carafa, stretto consanguineo del defunto, fondò a Roma la cosiddetta “Congregazione della Bona Mors”, che ebbe dappertutto un successo strepitoso. L'ispirazione, che ridava vigore ad un noto trattato del Bellarmino (De arte bene moriendi, 1620), era di prepararsi alla morte attraverso l'esercizio delle virtù teologali e morali e merito della Congregazione fu la codifica e la diffusione di una pratica quotidiana di esercizi spirituali, ai quali aderì anche Gian Lorenzo Bernini.

A questo punto però dobbiamo chiederci perché la morte del Carafa sparse il terrore e se esiste un nesso preciso -come tutto lascia pensare- fra l'episodio napoletano e la fortuna della Congregazione romana. Teniamo presente che in quei tempi tutta la classe dirigente europea (diciamo così) aveva i suoi carichi pendenti e che la morte violenta era un fatto di ordinaria amministrazione. Possiamo pertanto immaginare che l'uccisione del Carafa fu così repentina, che il poveretto non ebbe il tempo di pentirsi in articulo mortis, con la conseguente certezza che la sua anima avrebbe bruciato all'inferno. E dunque ci chiediamo: le modalità dell'esecuzione furono casuali o invece minacciate come tali e diffuse coram populo prima e dopo il fatto? Quale maggiore punizione che la morte eterna dell'anima! Le fonti tacciono pietose su questo particolare, ma se il Carafa non si comunicò in Santa Maria la Nova, prima di uscire temerariamente per strada, fu doppiamente imprudente. Perché due erano i fondamentali del tempo: la fame per i poveri e la paura della dannazione per i ricchi. Nel Seicento non si scherzava con queste cose, andarsene senza viatico era un rischio che pochi potevano permettersi e meno che mai Don Peppe ed i suoi simili. E' solo una ipotesi fantasiosa, ma ci aiuta a capire molte cose.

venerdì 23 novembre 2012

Il cerchio di Gaza

La questione palestinese è la questione della nostra epoca. Un punto di frizione internazionale nel quale un popolo, perseguitato fino all'olocaustro sessant'anni fa, si trasforma nel suo esatto contrario: in carnfice.
Questo racconto è stao dedicato da Maurizio Zenga come lui stesso scrive alla fine "alle vittime della strage cont8inua del popolo palestinese di Gaza".


(click per scaricare gli ebook)




Il cerchio di Gaza

di Maurizio Zenga

Ogni mattina, quando esco di casa, guardo il cielo e penso a Dio.
Nella  Sua infinita bontà dovrebbe considerare la mia vita, quella della mia famiglia e quella del mio popolo, degne di essere vissute in altro modo, non certo con la paura della morte che ti monta in spalla appena ti svegli e ti abbandona solo quando ti addormenti. Se ci riesci.
Guardo il cielo e penso che è lì che io troverò la pace e che da lì verrà il segnale che il mio momento è arrivato.
Ogni mattina, quando esco di casa, guardo  questo immenso azzurro e penso che potrebbe essere l'ultima volta. I miei occhi si riempiono di lacrime, mi prende un senso di abbandono profondo e vorrei già essere morto. Dio mi perdoni.
Qualche volta mi siedo sul gradino davanti alla porta e mi dico che non devo più pregarlo Dio ma devo dirgli che è un suo dovere lasciarmi vivere, non sono io che devo chiederglielo è Lui che deve lasciarmi vivere in pace, con i miei figli, i miei campi di terra arida e i miei ultimi ulivi, la mia casa ormai  quasi a pezzi per i colpi che ha ricevuto nel tempo e perchè non ho  più neanche un soldo.
Le olive le compravano loro. Mi pagavano poco ma almeno ero certo di dare qualcosa ai miei bambini, di poterli mandare a scuola, di dargli un pezzo di pane.
Ora sono loro che ci stanno lentamente uccidendo.
Ogni mattina, quando esco di casa per andare nei campi qui intorno a raccogliere quello che posso dar da mangiare ai miei cinque figli, a dare un po' dell'acqua piovana rimasta al mio piccolo orto, ho sempre lo sguardo verso il cielo. Un po' per la fatica di abbassarlo e vedere ciò che è rimasto di mio, un po' la speranza  che piova, un po' la paura che un colpo di obice si abbatta una volta ancora e per sempre  sulla mia casa e di  noi non rimanga più nulla.
Stamane ho preso coraggio perchè questa notte ho sentito rumori nel buio.
Sono uscito tirando un respiro profondo e ho steso lo sguardo verso Nord.
E' da lì che ogni tanto mi vengono a trovare. Li vedo arrivare nella polvere sollevata dai loro camion blindati  che  lentamente si dirada   svelando  volti cattivi di uomini che non sono più in loro.
I rumori continui nel buio parevano seghe a motore. Si, di quelle che usano i giardinieri nelle ville dei ricchi per curare le piante più alte o più larghe e unirle a misura di tutto il resto,  perchè tutto appaia ordinato, armonioso e prodotto da  un'unica mano gentile che appiana, che sfoltisce, che mette a dimora le piccole piante e i fiori secondo l'altezza e il colore.
Ciò che è rimasto delle mie piante d'ulivo fa  sembrare il mio campo un gran cimitero. C'è il sole.
Ciascuno dei tronchi segati non è più alto del mio figlio minore Said  che ha solo cinque anni. Molti di meno di quanti ne aveva il più giovane di questi alberi ormai morti.
E con questo non ho più nemmeno le olive, l'olio, la legna. Nulla. Vogliono che io vada via.
Si sono caricati la legna perchè neanche quella potessi usare nel forno, mi hanno lasciato un terreno senza vita e una vita, la mia, senza più terra.
Andando via son passati coi carri sopra le mie melanzane, le zucchine, la mia verdura non c'è più, le mie galline riposano immobili al sole e un rivolo del loro sangue scende lungo la fessura del terreno e si perde nel buio. Le formiche , loro si, oggi hanno un pasto.
Cosa darò invece ai miei figli?
Dio, dovunque tu sia, fa qualcosa! Non chiedo nulla per me ma per loro.
(Sono tutti sulla porta di casa e mi guardano attoniti vagare nel campo e toccare le zone del legno tagliate di fresco )
Maledetti  assassini. Maledetta la loro sete di vendetta che sbaglia bersaglio da decine di anni e che ci ha ridotti così, maledetti  tutti quelli che sanno e non agiscono. Che permettono che questo succeda senza muovere un dito.
Ho ancora negli occhi la parete bianca del muro della stalla, qui dietro la casa, macchiata del sangue di jaira mia moglie. Si era alzata di notte ai rumori, aveva raccolto le sue forze dal nostro letto e si era trascinata a fatica nel buio per stanare  due criminali in procinto di tagliare le tubature e avvelenare il pozzo per le bestie. Non ho potuto trattenerla. Non ho saputo difenderla. Ho sentito nel sonno  le sue urla quando era ormai troppo tardi e il suo corpo giaceva con la gola squarciata in un lago di sangue.
Maledetti!
Ho chiamato a raccolta i miei figli e ad uno ad uno ho chiesto loro di non piangere baciandoli in fronte. Siamo andati insieme in cucina.
Ho preso quella roba che ho lì da tempo, così, per ogni evenienza, sotto il lavabo e ne ho sparsa una striscia in forma di cerchio sul pavimento. Ci  siamo entrati tutti dentro e ci siamo abbracciati.
Ho guardato il cielo e il cerchio nitido del sole poi ho fatto il gesto che non potremo più ricordare e tutto è svanito. Per sempre.

Dedico questo poche righe alle vittime della strage continua del popolo palestinese di Gaza. 


english version 
(by Davide Pastorello and Martina Ferrero)



The circle of Gaza



Every morning, as I leave my house, I look at the sky and think of God.
In His infinite goodness He should deem my life, that of my family and of my people, worth being lived otherwise, certainly not with the fear of death that climbs your shoulder as soon as you wake up and leaves you only when you fall asleep. If you can manage that.
I look at the sky and I think that there I shall find peace and from there a sign will tell me that my time has come.
Every morning, as I leave my house, I look at this vast blue and think that it could be the last time. My eyes fill up with tears, I feel a sense of deep abandon and I wish to be dead already. May God forgive me.
Sometimes I sit on my doorstep and I tell myself that I shouldn't pray to God any longer but rather tell him that it's his duty to let me live, that I shouldn't be asking for it, it's him who should let me live in peace with my children, my fields of barren land and my remaining olive trees, my house almost in ruin due to the blows it received through time and to the fact that I don't have any money left.
They used to buy the olives. They paid little money, but at least I was sure I could give something to my children, send them to school and give them a piece of bread.
Now it's them who are slowly killing us.
Every morning, as I leave my house to go to the fields around here and gather whatever I can to feed my five children, to give some spare rainwater to my small garden, I always look at the sky. Partly to spare me the view of what I've got left, partly hoping for the rain to fall, and partly fearing that a howitzer blow could strike my house again and nothing would be left of us.
This morning I took heart because last night I heard noises in the dark.
I went out taking a deep breath and stretched my gaze towards the North.
It's from there that they come to visit me sometimes. I saw them coming through the dust raised by their armoured trucks as it slowly cleared revealing their evil faces of men who are not themselves any longer.
The continuous noises in the dark sounded like chainsaws. Yes, like those used by gardeners in the villas of the wealthy to prune the taller or larger plants to match their size with the others, so that everything looks orderly, harmonious and produced by a single gentle hand that smooths, thins and orders small plants and flowers according to height and colour.
What remains of my olive trees makes my field look like a big cemetery. It's sunny.
Each of the sewn trunks is not taller than my younger son Said who is only five. Many years less than the younger of these trees now dead.
And so now I don't have olives, oil nor wood any more. Nothing. They want me to leave.
They carried away the wood so that I couldn't even use it in the oven, they left me a lifeless land and a life, my life, with no more land.
            As they went away with their trucks they ran over my eggplants, courgettes, my vegetables are gone, my chickens lie motionless in the sun and a stream of their blood drips along the furrow in the soil and disappears in the dark. Ants, they do have a meal today.
What will I give to my children instead?
            God, wherever you are, do something! I don't ask anything for me, but for them.
(they are all on the doorstep and look at me astonished as I wander in the field and touch the areas of freshly cut wood.
Damn murderers. Cursed be their thirst for revenge that has been striking the wrong target for decades and ruined us, cursed be all those who know and do not act. Those who let this happen without lifting a finger.
I can still see the white wall of the barn, here behind the house, stained the blood of my wife Jaira. She got up at night hearing noises, she had gathered her strength from our bed and had dragged herself with difficulty across the dark to track down two criminals about to cut the pipes and poison the well for the animals. I could not hold her. I could not defend her. I heard her screaming in my sleep when it was too late and her body was lying with her throat cut in a pool of blood. Damn!
I summon my sons and one by one I ask them not to cry, kissing their forehead. We go together to the kitchen.
I take that stuff I kept under the sink for a long time, just in case, and I pour a strip of it in the form of a circle on the floor. We all enter the circle and we hug.
I look at the sky and at the clear circle of the sun then I make the gesture that we will not  remember, and everything goes away. Forever.


I dedicate these few lines to the victims of the ongoing massacre of the Palestinian people of Gaza.


Maurizio Zenga (Naples 1954)
Architect, graphic designer, illustrator, cartoonist, Professor of Art and Image.
He worked in television, advertising and theater.
Expert in multimedia teaching, he writes and draws for fun and to think about things in the world.
He lives in the province of Treviso.


Maurizio Zenga ( Napoli 1954 )
Architetto, grafico,  illustratore, vignettista, docente di Arte e Immagine.
Ha lavorato nel campo della televisione, della pubblicità e del teatro.
Esperto di  didattica multimediale. Scrive  e disegna per diletto e per riflettere sulle cose del mondo.
Vive in provincia di Treviso.