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ebook di ArchigraficA

giovedì 6 settembre 2012

Il mito dell'analisi


di Giacomo Ricci



Edgar Poe è un grande poeta.
“Che scoperta! C’era bisogno che mo ce lo dicevi tu”.
Certo, non è una scoperta.
Ma alcune cose che sembrano lasciate, lì, tra le righe che scrive, lasciano davvero sconcertati.
Ad esempio la sua definizione dell’ analisi. Un pezzo magistrale, il suo, che fa da introduzione a uno dei suoi racconti, a mio parere, più raccapriccianti,  I delitti della rue Morgue.
In due racconti, questo ora detto, e quello, famosissimo, de La lettera rubata, fa la sua apparizione Dupin. Il vero incunabolo dal quale è nato, poi, l’Holmes di Conan Doyle. Tanto che, mentre leggi, le figure dei due personaggi si sovrappongono, finendo quasi per coincidere.
Ma qual è il tratto distintivo di Sherlock-Dupin? L’ analisi, per l’appunto. Quella capacità di entrare nelle cose, sotto l’apparenza, di collegare e dividere, di de-durre, condurre fuori, ex-ducere dalle cose il senso vero. E la vera scoperta che il più delle volte questo senso se ne sta dritto dritto davanti ai nostri occhi ma è tanto evidente che non ce ne accorgiamo.
Mi richiama alla mente quella frase incredibile di Ernst Bloch quando parla della stupidità intesa come “quella prossimità alle cose che rende ciechi”. E’ necessario allontanarsi, prendere aria, per così dire,  per avere uno sguardo d’assieme. Di qualsiasi cosa: di un quadro, come di una piazza, come di un problema. Guardare nel complesso, centro e periferia, area e bordo, cuore e capelli, insomma.
L’analisi di cui parla Poe e lo sguardo d’assieme di Bloch non sono proprio la stessa cosa. Ma di tratti in comune ne hanno,  e come.
Ne La lettera rubata, come sanno quelli che l’hanno letto, tutto il gioco sul quale il protagonista maligno basa il suo potere è l’evidenza delle cose. Tanto più stanno sotto i vostri occhi e tanto meno le vedete, sembrano dire Bloch e Poe.
In effetti la stessa logica è quella della ricerca scientifica. Scoprire quello che è evidente e che non si vede.
Ma come si fa? Qui interviene la definizione di Poe. L’analisi spesso viene confusa con quella disciplina che ha a che fare con la matematica (l’analisi matematica). Ma non vi coincide.
Su questa faccenda che Poe, alla fine,  ce l’abbia con la matematica, un tempo, quand’ero molto giovane, mi sarei ferocemente incazzato.
Perché io della matematica avevo il mito. Mi sembrava perfetta.
Tutto c’è e tutto ritorna, sempre. Come back home, in every time. Al di sopra dei secoli, tra gli Egizi assolutisti dei faraoni e dei gatti divini come tra i comunisti di Fidel e il trionfo dei barbutos. Il quadrato costruito sull’ipotenusa è sempre uguale alla somma dei quadrati costruiti sui cateti.
Sempre a sapere veramente che cosa sia un triangolo, aggiunge Poe. Ma lasciamo un attimo Poe e torniamo alla mia giovinezza e alla matematica.
E già. Non lo dico per vantarmi ma io, al liceo,  ero uno di quelli che il libro di testo di matematica e fisica non ce l’aveva e facevo poco o niente gli esercizi a casa. Mi rompevo le palle, ovvio. Preferivo uscirmene con la ragazza. Il mio professore di liceo però non se la prendeva. Perchè ogni volta che m’interrogava non poteva concludere se non dicendo: “Ricci lei è eccellente. Ha lo smalto del matematico puro”.
E già. Mai illuso di essere un matematico puro, che non so nemmeno che cosa voglia dire. Il fatto vero è che mi bastava quello che lui diceva. Viaggiavamo sulla stessa lunghezza d’onda. Lui si spiegava e io lo capivo. Ovvio. Niente di più e niente di meno.
Immaginatevi quanto io ne fossi orgoglioso.
Molti miei compagni di classe schiattavano. M'avessero voluto accirere. 
Ed è stato così pure nei miei studi universitari di ingegneria. Qui le spiegazioni non mi bastavano. Ci è voluto anche uno studio solido e impegnativo. Di ore, ore, ore. Dio, quanto ho studiato nel biennio di ingegneria.
E qui mi sto avvicinando al punto centrale del mio ragionare.
Gli esami di analisi matematica mi hanno visto tra i protagonisti. Voto medio, il mio, era trenta e lode.
E poi? Che è successo?
E’ successo che, dopo un tre anni di felice convivenza universitaria,  io e la matematica ci siamo separati. Una separazione consensuale, come si dice,  civile.  Ognuno per la sua strada. Disciplina che rispetto. Ma, devo dire, un po’ stupidotta. Sì, alla lunga, mi ha rotto le palle. Preferisco la letteratura e le sue ubbie, i suoi intrugli, i suoi misfatti, le sue grandezze. La pittura e le sue visioni allucinate, vagheggianti e feroci. 
E più stupidi mi sembrano quelli che ne fanno un mito (della matematica). Come del resto facevo io  nella mia ingenuità di ragazzo. Come gli ingegneri. Ah! Gli ingegneri!
E sono nel vivo del problema.
Io adoro la mentalità degli architetti.
Si dice che gli architetti sono “imbroglioni" e magari è abbastanza vero.
Adoro il loro modo di pensare, nonostante la mia formazione giovanile da ingegnere.
Un modo di pensare istituzionalmente "impreciso" come scriveva qualche anno fa Nicolas Negroponte, guru mondiale dell'informatica. 
Il pensare degli architetti corrisponde a pieno a quello che dice Poe.
Non sentirete mai un architetto dire “E’ così” ma “potrebbe darsi”. Mai “Si fa così” ma “Io farei”. Si apre il regno del possibile. Che cosa straordinaria. Rendere nella propria mente le cose possibili. Anche quelle improbabili. Come fanno gli artisti, gli utopisti, i sognatori, gli uomini di "poco conto". Quelli che guardano lontano all'orizzonte e sognano di vedere apparire la terra nella massa sconfinata d'acqua che li circonda. 
Non posso non avere davanti agli occhi l’architetto Henry Fonda di Twelve hungry man che insinua la logica perversa e subdola del dubbio nei giurati riuniti in camera di consiglio, decisi a condannare, tutti, il malcapitato di turno. Lui, l'architetto, si infila in questa certezza con il cuneo del dubbio fino a spaccarne la consistenza . Sconvolge gli orizzonti  di  chi ha certezze e, a poco alla volta, smantella il castello di carte delle accuse, lo fa letteralmente andare in frantumi colpo dopo colpo.
E ho sempre davanti il dilemma: Come avrà fatto Brunelleschi a far reggere quella mole enorme di mattoni, tonnellate e tonnellate di argilla cotta,  a 100 metri da terra? Il bello è che un “modello” inerpretativo nonsotante gli sforzi, la nostra “scienza delle costruzioni”, figlia bastarda e zoccola della matematica e della fisica, non  ce l’ha ancora dato. Zoccoleggia con le sue espressioni, le sue equazioni, i suoi teoremi. Ma va sempre a buca.
Edgar Allan Poe batte Vincenzo Franciosi 2 a zero, avremmo detto noi birbanti studenti di ingegneria di tanti anni fa. 
E Ser  Pippo di Brunellesco, orafo, tombarolo con Donatello nella Roma antica, gioielliere fottuto dalla maestria di Lorenzo Ghiberti, puntuto genio inventore del sistema di tirar su la cupola senza bisogno di centinature,  di matematica ne mazzicava proprio poca. Senza integrali, equazioni differenziali, modelli, solidi di De Saint Venant, isotropia, anisotropia, omogenità, diagrammi tensionali  e altre cazzate del genere.
Poe ci confida, sempre nell’introduzione ai Delitti, che non ama il gioco degli scacchi. E come mai? si chiederà qualcuno. 
Poe la fa semplice: perché vi è l’equivoco che la complicazione formale sia forma di intelligenza. Toh? Guarda un po’. Ma vuoi vedere che i “modelli” alla base della disciplina delle costruzioni in cui tanto confidiamo, dai corsi universitari ai calcoli famigerati da presentare al Genio Civile,  fossero solo complicazione? Formalismi? Complicazione formale e basta?
La complicazione formale, dice Poe, rimane tale. Non solo. Ma un'intelligenza che si perda  nelle spire della complicazione e dei suoi sofismi,  rischia di porsi troppo vicino alla cosa che  studia. Conseguenza di ciò? Si perde la visione d’assieme. Si corre il rischio di cui parla Bloch. Si apre quella “prossimità alle cose che fa diventare ciechi, stolti”.
Così il malfattore de La lettera rubata fotte l’investigatore di polizia perché nasconde la lettera che tutti cercano, arrivando anche a smantellare pavimento, mobili, cassetti segreti e trucchi nascosti, travi e intonaco, e la mette proprio lì, sul camino, davanti a tutti, infilata in un vecchia sacca, in bella vista, in una busta un po’ sporca,  sgualcita che ha tutta l’apparenza delle cose che stavano lì lì per essere gettate alle fiamme e che poi, per una dimenticanza, sono sopravvissute. Un rifiuto dimenticato che deve andare a finire nel camino. 
Come a dire che chi segue la logica, le regole, gli impianti costituiti, le procedure, i protocolli, le strade maestre del ragionamento, si rassegni, è destinato a fottersi.  E’ perdente per definizione. Il paradigma interpretativo muta e la sua vita si spegne. Non ci arriverà mai.
Eccola la prossimità che rende ciechi.
E quando Einstein sconvolge, agli inizi del Novecento tutti i paradigmi, il lessico - direbbe il caro buon Salvatore di Pasquale, non a caso architetto che ha scritto meglio e di più di tanti ingegneri di Scienza delle costruzioni, sconvolgendo il lessico matematico usuale   - della fisica classica newtoniana - e per questo chiede scusa al suo maestro anche se in uno spazio atopico dell’immaginazione e della cultura trasversa al tempo - che fa se non allontanarsi dai parametri usuali (e le complicazioni, i modelli  matematici, che descrivono uno spazio assoluto) per confutarne i principi?
Morale della favola: Poe è intellettuale straordinario e, come tutti i geni inascoltati e soli, è profondamente infelice e folle. Ma non per questo non ha ragione.
E’ il poeta del Never more, mai più, mai più. Dell’attimo isolato, solo, unico e sperduto, fragile e incommensurabilmente minimo, rispetto alla logica dell’universo che gli sfugge, come la vita, l’amore e l’occasione della felicità dalle mani. Per non tornare più. 
Ogni attimo si perde. Un never more che consuma  l’anima  in uno struggimento di infinita melanconia.
E mi commuove nella sua scientifica artisticità folle che disegna le vie dell’inconscio e delle sue paure, dei terrori che attanagliano il fondo della nostra anima e allo stesso tempo descrive, in un saggio luminoso e pazzesco, i confini e le regole dello spazio ascientifico della poesia, in quel lucidissimo suicidio dell’intelletto creativo che va sotto il nome di EUREKA.
Di questo abbiamo bisogno nelle nostre asfittiche aule universitarie, infagottate di modelli matematici stantii e stupidi. Oh, quanto stupida è la matematica rapportata ai misteri della realtà, dice Poe. 
Scambiare un formalismo stitico e rarefatto per verità e contrabbandarlo come modello per interpretare il mondo. Quale ingenuità! 
Non si tratta altro che di  pura illusione in attesa che accada qualcosa che smantelli tutto.
Eventualità che, ci si può scommettere, ritorna, nella spirale infinita della storia con estrema puntualità.
Noi, però, facciamo pagare uno scotto troppo grande all’intelligenza dei nostri giovani, soffocandoli con stereotipi intellettuali stantii e obsoleti. Tutti lo sanno. Gli unici a non essersene ancora accorti, perché troppo vicini da esser ciechi, son quelli che  insegnano la scienza e le sue procedure. 
Senza sapere che tutt’è tranne che certezza. Insieme di modelli che, in un tempo rapidissimo, diventano rarefatti e obsoleti. E ci lasciano in mano un pugno di mosche.