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ebook di ArchigraficA

sabato 17 settembre 2011

Fuoco ai Quartieri Spagnoli

un bel libro di Attilio Belli

di Giacomo Ricci

Ho finito di leggere da poco meno di mezz’ora Fuoco ai quartieri spagnoli di Attilio Belli. Il libro mi ha preso. E, da stamattina, l’ho lasciato solo quando l’ho finito. Non è solo perché conosco, da anni,  l’autore, professore della Facoltà di Architettura di Napoli e perché l’atmosfera del libro è quella della nostra vita da giovani. Ma anche perché il libro ti prende. Per la storia che procede spedita, per la simpatia umana del suo protagonista,  Giacomo, detto Comò dagli amici francesi di Parigi. Un ulteriore motivo di simpatia, inutile sottolinearlo, è perché anch’io mi chiamo Giacomo. Ma questa è solo una coincidenza.
Giacomo  ha vissuto per un quarto di secolo nella capitale francese, pur essendo napoletano, per sfuggire a un destino quasi inevitabile di galera e persecuzione politica, anche se, pur avendo fatto parte dei NAP (Nuclei Armati Proletari), non si è mai macchiato di nessun delitto.
Perché proprio questo è il nodo della storia. Comò, a prima vista e per la sua storia vissuta, ha tutte le caratteristiche per essere un terrorista predestinato. Ma, a leggere bene il suo cuore, è troppo tenero e sognatore per credere che la morte degli innocenti possa mai servire a una causa politica. La morte degli innocenti snobilita qualsiasi causa. La violenza alla quale Comò,  pure pensa, è solo simbolica.
Lui vorrebbe incendiare un monumento simbolo della storia di Napoli, magari della sua schiavitù, della sua subalternità, senza che nessun umano ne debba soffrire. Un incendio astratto, per così dire.
E per questo viene anche preso in giro dai personaggi che gli stanno al contorno che, al contrario, nella violenza ci credono e come, l’invocano e vorrebbero che lui, con la sua esperienza e la sua storia li conducesse per la strada della vendetta, della “gloria rivoluzionaria”.
Da quando Comò si stabilisce a Napoli è un continuo bussare alla sua porta (in senso metaforico ma anche fisico) di gente che gli chiede di abbracciare la sua causa. Comò l’incendiario così, vede ‘o Capitano, boss di quartiere, che gli chiede di unirsi alla sua, per la verità  poco nobile,  causa per far fuori concorrenti di altri clan camorristici o “clienti” riottosi di adattarsi e pagare il pizzo;  Abbas, iraniano che vuole conquistarlo alla causa del fondamentalismo terrorista arabo, o l’ingegnere Ermenegildo S. che, in un suo allucinato piano di ristrutturazione dell’intera città di Napoli, non esita a prevedere di far appiccare i fuochi a interi settori strategici della città, per poi accaparrarsene la ricostruzione, una sorta di Nerone redivivo. E non mancano, alla fila fuori alla porta di Comò,  i centri sociali di periferia che vogliono reclutarne la competenza per azioni dimostrative contro mutui in rialzo e governi locali traditori o, alla fine, perfino  club di ultras della squadra del Napoli che vogliono far appiccare una serie di piccoli incendi controllati per  accentrare l’attenzione sulla loro rabbia e la loro voglia di protagonismo.
Tra tutti si muove Sara, ragazza magra, bruna, con capelli a caschetto e seni piccoli, intabbarrata in jeans scoloriti al punto giusto, casaccone verde-militare da marine e reboot all’ultimo grido. Sara gli gira attorno, fa all’amore con lui, compare, scompare, intriga, traffica, smaniosa com’è di arrivare nella vita, di far soldi e conquistare potere e ricchezza.
Tra tutti loro il buon Comò si muove senza mai essere del tutto convinto. Ma perché Comò, tornato per segnare in maniera forte la storia della sua città, resiste, non si fa convincere da nessuno? Perché Comò tutt’è tranne che un terrorista. Il fuoco, il suo significato miracolosamente purificatore e la sua ambiguità che lo fanno oscillare tra simbolo del paradiso ed emblema dell’inferno, gli viene da un autore che lui ama più di ogni altra cosa, anche della stessa politica e dell’ideologia. E’ da Gaston Bachelard, il grande vecchio, che Comò è affascinato, alla lettera. Il suo modo di leggere il sogno, l’immaginazione e la produzione d’immagini, il senso del fantasticare letteralmente tengono incatenata la sua anima.
E Comò è un poeta, anche se non lo sa ancora. Non ne è convinto e fino alla fine non se ne renderà conto. I due libri che più lo hanno rapito che l’epistemologo francese  ha scritto,  sono  La poétique de la rêverie e La psychanalyse du feu. Il secondo lo si capisce subito, ha un valore importante per l’animo di Comò perché il fuoco diventa l’obbiettivo – stavo per dire la persecuzione – di cui Comò riempie la sua vita residua.
La rêverie è, invece, la vera sostanza di Comò, sognatore, poeta, che ama fantasticare anche se con un leggero senso di colpa che gli viene dall’ideologia e dall’attivismo movimentista.
Perché poi l’impressione che si ha è proprio questa: che la vita di Comò sia un residuo, un resto, un rifiuto proprio come quelli che invadono la città in ogni suo angolo.
Comò vive quella disperata solitudine che solo gli artisti sperimentano e conoscono bene. E la loro vita è prenderne consapevolezza e abituarsi a vivere in solitudine, imparando a soffrirne in maniera, vorrei dire, “controllata”, come un’esplosione. Se questa  avviene tutt’insieme,  porta alla dissoluzione e al disastro dell’Io. Ma che se è fatta per gradi, per l’appunto in maniera controllata, può diventare sopportabile, forse anche creativa e permettere che nella stolida consistenza del mondo concreto e delle sue insopportabili leggi di potere,  messe in piedi per controllare gli uomini e impadronirsi delle loro anime, si aprano delle crepe attraverso le quali passi anche qualche attimo di serena felicità.
E’ quella serena felicità che Comò e Sara potrebbero cogliere e gustare ma che non riescono neanche a distinguerla a tratti,  perché la loro coazione ad essere gli impedisce di esistere nell’istante, nell’ “intuizione dell’istante”, proprio come scrive il grande vecchio Bachelard.
Bella la descrizione della foto di Bachelard, con la luce che viene da sinistra, la faccia per metà in ombra e il cappello. Quella che ha segnato tutti i libri tradotti in italiano e pubblicati da Dedalo, con la copertina gialla e il bordo azzurro.
Lungo la storia ne succedono di cose, come l’esplosione in Via san Mattia (dove sono nato) e molti isolati vanno a fuoco. Ma la responsabilità, e tiriamo un respiro di sollievo,  non è di Comò, non c’è da preoccuparsi. Comò è immacolato, perduto tra le immagini che gli girano nella fantasia, i suoi conati poetici di cui non si rende conto e la voglia di vedere la sua  città, maledetta, condannata a un destino inevitabile e nero, trasformarsi in una città normale.
Ma devo dire che il finale Attilio Belli lo lascia indeterminato. Perché la cagnetta che Sara ha regalato a Comò, sente la puzza di benzina con la quale il suo padrone ha deciso di farla finita e raspa dietro la porta.
Vuoi vedere che lui, in quelle unghie che grattano e lo vogliono in qualche modo tirar fuori, salvarlo da quel destino triste e rinunciatario, riesca a vedere quella purezza di sentimenti e quella dedizione di cui solo un cane sa essere espressione in questo mondo di umani di merda,  dilaniato da conflitti stupidi e inessenziali che ci circonda?
Io spero di sì. Per lui e per noi.
Un libro che si legge tutto d’un fiato, quello  di Belli, tenero, denso di citazioni, quelle care agli architetti della mia generazione che all’ombra di Foucault, Bachelard, del maggio francese e delle riunioni nelle Facoltà di Architettura hanno vissuto e si sono formati.
Un libro che, non fosse altro che per queste utlime considerazioni, tutti gli architetti napoletani dovrebbero leggere.
Una chicca finale. Lo studente di cui parla Belli, quello che sbaglia la pronunzia dei Grundrisse, traducendola all’inglese Grundraiss, era un mio collega di corso.  Si chiamava Pino. L’episodio è vero perché è successo con me presente. E il poverino venne smerdato da un professore, Aldo,  pubblicamente tra le risate di tutti. Ma capirete che per ovvi motivi di privacy non posso fare il cognome né dell’uno, né dell’altro.
Ma, vi assicuro che,  a pensarci oggi a tanti anni di distanza, ancora mi viene da ridere. Ma, come dire?, era gioco forza. Noi andavamo a botta di citazioni. E a 18 anni quante cose puoi aver imparato?
Grazie Attilio.